La giornalista Rosita Rijtano ha ricostruito le dinamiche interne al movimento dei ciclofattorini, tra chi lotta per un inquadramento contrattuale e chi crede che l’autonomia permetta maggiori guadagni. Nel frattempo il “diritto” anticipa la politica e tenta di limitare lo strapotere delle piattaforme. Il nodo della raccolta dei dati
“Vogliamo tutto”. Yorgos, nome di fantasia, conclude così il suo intervento in una domenica di metà marzo al Gabrio, un centro sociale di Torino. È arrivato dalla Grecia dove è rappresentante del sindacato di base Sveod, per programmare i prossimi passi della lotta dei lavoratori al servizio dell’industria del food delivery. Quel “volere tutto” che a Torino (e non solo) rimanda al titolo del romanzo di Nanni Balestrini che ricostruisce le lotte sociali e politiche dei primi anni Settanta, in particolare nel capoluogo piemontese sede della Fiat. Proprio attraverso le parole di Balestrini passato e presente si legano, nel libro-inchiesta “Insubordinati” curato dalla giornalista Rosita Rijtano e pubblicato da Edizioni Gruppo Abele a metà giugno 2022, nelle battaglie di chi pretende il rispetto dei propri diritti sul luogo di lavoro. Un viaggio nel mondo dei rider che ricostruisce la complessità di una categoria profondamente eterogenea accomunata, però, dal profondo squilibrio di potere tra datore di lavoro -piattaforme digitali e aziende milionarie che le gestiscono- che spesso toglie voce (e tutele) ai lavoratori della cosiddetta gig economy.
Rijtano, partiamo dal 2016. Nell’ottobre di quell’anno compare infatti sul muro di Palazzo nuovo, università “storica” del centro città di Torino, la scritta “Foodora sfrutta”. Che cosa rappresenta?
RR L’inizio di un percorso. Il primo sciopero organizzato dai rider contro la Gig economy in Italia con un risalto anche da un punto di vista mediatico. Un primo passo soprattutto, come racconto nel primo capitolo, verso la presa di coscienza da parte dei lavoratori di essere una “categoria”: ancora oggi tutt’altro che scontato. I rider sono lavoratori molto diversi tra loro e un gruppo molto eterogeneo. Si va dagli studenti agli over 50 espulsi dal mondo del lavoro. Al Nord sono in maggioranza stranieri, scendendo verso Sud invece questa incidenza diminuisce. E quindi, già solo a livello geografico, cambia la consapevolezza di avere o meno determinati diritti.
Nel libro emerge la “divisione” interna alla categoria tra chi vuole restare un lavoratore autonomo e chi, al contrario, lotta per l’inquadramento contrattuale. Che idea si è fatta del mondo dei rider?
RR C’è sicuramente una “fetta” di loro che vuole “autonomia”. Non so dire quanti, anche perché dati precisi su questo “mondo”, come racconto nel libro, non ne esistono. Ho provato a darmi le risposte sul perché. Certamente attira la possibilità, in certi casi, di poter guadagnare un po’ di più nonostante il non avere ferie, non avere malattia riconosciuta, la possibilità del Tfr incida inevitabilmente sulla condizione di questi lavoratori. Gli stranieri a volte non hanno idea di poter usufruire certe tutele ma soprattutto hanno paura di non avere alternative. Rispetto agli italiani credo che la parola “diritti” si sia svuotata di senso nel corso degli anni nel mondo del lavoro che le leggi degli ultimi cinquant’anni hanno precarizzato sempre di più. Fino al “colpo di grazia” del Jobs act che addirittura va a indebolire anche le tutele dei contratti a tempo indeterminato. Una spiegazione che mi ha confermato anche il professor Federico Martelloni, che insegna Diritto del lavoro all’Università di Bologna, e che mi ha sintetizzato uno dei lavoratori pro-autonomia quando, spiegandomi le sue ragioni, si è definito “schiavo” ma per avere “quelle quattro fesserie in termini di diritti preferisco restare autonomo”. Mi ha fatto riflettere. L’altra possibile spiegazione è la flessibilità: la propaganda delle aziende ha puntato molto su questo aspetto. Più lavori più guadagni, lavori quando vuoi tu. Non è che sia così vera questa libertà, in concreto, perché comunque tu dipendi da un algoritmo che ti valuta costantemente e ti dà più o meno lavoro. E poi si punta a far passare il lavoro subordinato che non può essere flessibile: non è così. Come spiega Antonio Aloisi, professore ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Madrid, nessuna norma lo prevede. E la pandemia ce lo ha dimostrato. L’inquadramento tra autonomo e subordinato è discusso nei tribunali e anche a livello europeo con una proposta di direttiva che elenca una serie di criteri secondo cui i lavoratori devono essere considerati subordinati. Al di là delle differenti posizioni quel che è certo è che l’attuale inquadramento non garantisce neanche una reale autonomia.
Dove non arriva la politica arriva il diritto. L’accordo di Just Eat con i sindacati maggiormente rappresentativi che cosa ci dice? Perché è una vittoria a metà?
RR Sicuramente è un tassello importante che dimostra che la subordinazione è possibile anche in questo settore, così come il riconoscimento dei diritti per i lavoratori. Alcune voci sono però critiche rispetto a questo accordo perché la paga oraria è stata bloccata per due anni a 8,50 euro lordi, al ribasso rispetto ai nove euro assicurati agli altri lavoratori del settore, con poche persone che sono state contrattualizzate per le ambite 30 ore settimanali che garantirebbe uno stipendio di circa 1.300 euro.
C’è un tema spesso in secondo piano che è quello della privacy. Dei lavoratori ma anche dei consumatori. Può aiutarci a capire di cosa si tratta?
RR È una grande discussione aperta e che non riguarda ovviamente solo i rider. Modalità lavorative applicate ai rider e ai lavoratori di piattaforma le stiamo già vedendo in settori anche più tradizionali dell’economia: gestione algoritmica dei lavoratori con massiccia raccolta dei dati. L’Europa sicuramente è più attenta rispetto ad altri Stati. Ma addirittura la Cina, non di certo un esempio di attenzione su questi temi, è intervenuta cercando di mettere un argine al lavoro gestito da piattaforme. Ci deve far pensare. Di fatto, prima che intervenisse il Garante per la protezione dei dati personali i rider non venivano adeguatamente informati sull’utilizzo dei dati. Sono stati fatti dei passi in avanti ma l’utilizzo resta scarsamente trasparente. Mi spiego: se Glovo apre dei ristoranti ad hoc in determinate zone della città adeguando il menù ai “gusti” di chi ha ordinato il cibo nelle settimane precedenti è chiaro che è un’enorme massa di dati da cui le aziende possono trarre valore. Nel caso dei lavoratori si tratta, tra l’altro, di un doppio sfruttamento: il lavoratore non porta solo un contributo di lavoro fisico e intellettuale ma anche inconsapevolmente un valore informativo che viene dato attraverso la raccolta dei dati. Il ragionamento è molto aperto. Anche il ministro del Lavoro Andrea Orlando si chiede come poter intervenire per far sì che anche la collettività tragga beneficio dalla raccolta dei dati e non solo l’azienda. Da parte dei lavoratori, sicuramente, c’è scarsissima consapevolezza. Così come nelle aule dei tribunali dove è molto più presente la questione dell’inquadramento dei lavoratori rispetto al tema dei dati.
Qual è il rapporto tra sindacati “storici” e le cosiddette “union”?
RR Inizialmente la lotta dei rider è stata portata avanti dalle cosiddette union, forme di sindacalismo informale nate in molte città italiane, come Roma, Bologna, Milano e Torino. Un’esperienza positiva, come racconta bene Marco Marrone nel libro “Rights Against the machine”, che riporta quanto è stato fatto a Bologna. Queste reti hanno però subito una battuta d’arresto e i sindacati sono tornati a giocare un ruolo. Alcuni ritengono che questo passaggio sia fondamentale per portare avanti la battaglia dei rider a livello istituzionale. Altri pensano che questa intermediazione non sia necessaria.
Che ruolo hanno i consumatori? E le cooperative di rider “contro lo sfruttamento” come Robin Food?
RR Se i rider potessero recensire i clienti non so che cosa ne verrebbe fuori. Me li hanno descritti come molto esigenti e poco attenti a quello che succede dall’altra parte. Poco consapevoli di come una recensione possa influire sulla vita lavorativa della persona, sul guadagno mensile, poco consapevoli che la maggior parte delle compagnie li paga massimo quattro euro a consegna. Sulla questione alternative etiche è molto bella come esperienza, sicuramente, ma problematica sotto certi aspetti. Politica e sindacati spingono i rider a fare la loro cooperativa. L’autoimprenditorialità lascia però un po’ il tempo che trova: si spinge l’altro a fare quello che tu non riesci a garantire. I rider così come in tanti altri settori. È la delega politica e istituzionale che veicola questo messaggio del diventare imprenditori di sé stessi e poi se fallisci, però, le responsabilità sono solo tue.
Ogni capitolo inizia con una citazione di Nanni Balestrini e del suo “Vogliamo tutto”. Che legame c’è tra presente e passato?
RR Ho trovato questa analogia forte con le lotte degli operai delle fabbriche negli anni Settanta raccontate da Balestrini. Così l’estratto che apre ogni capitolo viene poi “tradotto” in chiave moderna dai contenuti del capitolo. Torino è stata culla delle lotte operaie e simbolicamente anche l’inizio della lotta dei rider. Ci sono analogie così come differenze: l’eterogeneità e il controllo algoritmico, come dicevo. Così come anche la spersonalizzazione dei rapporti. Nel libro racconto che per i lavoratori di Just Eat Torino è stata una conquista, durante uno sciopero, vedere in faccia il loro datore di lavoro. Questo è un elemento importante e l’ho sperimentato anche io nel mio lavoro: le grandi piattaforme che hanno risposto alle mie richieste l’hanno fatto via email.
Questo articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 3 luglio 2022