Due settimane dopo l’uccisione della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, la commozione è ancora alta: le strade di Jenin, Gaza e Gerusalemme sono ricoperte di murales dedicati a lei, centinaia di articoli continuano a essere pubblicati sulla stampa araba o sui social network, mentre il quotidiano Al Quds ha raccolto decine di vignette dedicate alla sua morte.
Il gruppo di musica elettronica 47 soul ha realizzato un potente video intitolato Shireen, mentre sulle tv satellitari le edizioni speciali a ripetizione ripercorrono i trent’anni di vita professionale della giornalista.
Lo scrittore Majed Kili spiega sul sito Daraj questa emozione condivisa da tutti i palestinesi raccontando che la giornalista è subito diventata un’icona “al pari di personalità come Yasser Arafat o il poeta Mahmoud Darwish” in quanto la sua figura unisce tutti i palestinesi, aldilà delle divisioni ideologiche, religiose o politiche: “Questa donna, figlia di una famiglia cristiana di Betlemme che viveva a Gerusalemme ed è stata uccisa, o meglio è stata vittima di un’esecuzione, a Jenin, campo simbolo della sofferenza di tutto un popolo rifugiato, è stata salutata da tutta la Palestina, senza distinzione, senza divisioni”.
Subito dopo la sua uccisione, Al Jazeera aveva rilasciato una dichiarazione in cui accusava le forze di sicurezza israeliane di aver preso di mira “deliberatamente” Abu Akleh e di averla uccisa “a sangue freddo”. La tv ha in seguito pubblicato dei video che attestano l’assenza di scontri sul luogo in cui la giornalista è morta.
I portavoce dell’esercito israeliano dapprima hanno negato, per poi annunciare che Israele non avrebbe aperto un’indagine sull’omicidio di Abu Akleh, poiché secondo i pubblici ministeri non sussistevano azioni irregolari da parte dei soldati israeliani, e infine hanno proposto un’inchiesta condivisa con i palestinesi. Per la comunità internazionale non è sufficiente: il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che chiede un’indagine “immediata, approfondita, trasparente e imparziale”.
Due inchieste indipendenti
In questa tragedia, sta emergendo il potere dei mezzi d’informazione: mentre si discute dell’apertura di un’indagine, i colleghi della stampa internazionale si sono messi al lavoro. L’Associated Press ha pubblicato un’inchiesta e ha spiegato che è stato necessario realizzarla perché “quando viene colpito un palestinese, le indagini israeliane si trascinano per mesi o anni prima di essere tranquillamente archiviate”. L’Ap ha incontrato molti testimoni e confrontato i numerosi video pubblicati sui social quel giorno incrociandoli con l’analisi realizzata dal gruppo di giornalismo investigativo Bellingcat. Secondo la ricostruzione la giornalista, insieme ad altri colleghi, si stava incamminando in direzione di una pattuglia israeliana percorrendo una strada larga e dall’ampia visibilità e indossando un giubbotto con la scritta Press e un caschetto. Nelle vicinanze non c’erano né scontri né militanti palestinesi armati. Gli spari sono stati improvvisi, come testimonia anche un video.
Anche la ricostruzione della Cnn è praticamente un atto di accusa corredato di prove: i video della scena della sparatoria pubblicati dal canale statunitense confermano che non c’erano né combattimenti né militanti palestinesi vicino ad Abu Akleh nei momenti precedenti la sua morte: “I video ottenuti dalla Cnn sono corroborati dalla testimonianza di otto testimoni oculari, un analista audio forense e un esperto di armi esplosive. L’inchiesta investigativa è senza appello e suggerisce che Abu Akleh sia stata uccisa a colpi di arma da fuoco in un attacco mirato delle forze israeliane”. La Cnn ha anche potuto visionare i filmati delle body cam dei militari israeliani, determinando la loro posizione e stabilendo di quali armi erano in possesso quel giorno.
L’esercito israeliano ha dichiarato di non potere dare seguito all’inchiesta senza analizzare il proiettile che ha colpito la giornalista, che i palestinesi rifiutano di consegnare. Su questo argomento la Cnn dice: “Anche senza accedere al proiettile che ha colpito Abu Akleh, ci sono modi per determinare chi l’ha uccisa analizzando il tipo di spari, i suoni e i segni lasciati dai proiettili sulla scena”.
Il caso di Shireen Abu Akleh, se è senza precedenti per l’emozione che ha suscitato, non è un caso isolato
La tv americana ha chiesto a Chris Cobb-Smith, un consulente per la sicurezza e veterano dell’esercito britannico, di esaminare le immagini ottenute dalla Cnn, che mostrano i segni dei proiettili lasciati sull’albero dove è caduta Abu Akleh e dove la sua giovane collega Shatha Hanaysha si stava riparando. L’analisi conferma che “la giornalista è stata uccisa dagli spari di un cecchino e non da una raffica di spari automatici. Invece la maggior parte degli spari dei palestinesi catturati dalla telecamera quello stesso giorno provenivano da armi automatiche”.
Ma lo shock e il clamore mediatico non si sono fermati. Il potere dell’informazione si è rivelato nella trasmissione in diretta tv del funerale di Abu Akleh: milioni di telespettatori sono stati anche testimoni di una violenza inaudita. La processione è stata aggredita dalla polizia israeliana e la bara non è caduta solo grazie alla tenacia dei portatori, come si vede molto bene nei video. Uno dei portatori, Amro Abu Khdeir, filmato mentre veniva picchiato, è stato arrestato tre giorni dopo dalla polizia israeliana per “appartenenza a un’organizzazione terroristica”.
Purtroppo, il caso di Shireen Abu Akleh, se è senza precedenti per l’emozione che ha suscitato, non è però isolato. I giornalisti palestinesi pagano un caro prezzo per il loro lavoro. Secondo la International federation of journalists (Ifj), dal 2000 le forze israeliane hanno ucciso almeno 46 giornalisti palestinesi, mentre Reporter senza frontiere ha registrato più di 140 abusi da parte israeliana contro giornalisti palestinesi da quando sono cominciate le proteste a Gaza, nel marzo del 2018. I palestinesi quindi non credono più nella giustizia israeliana: “Perché dovremmo aspettarci che Israele indaghi a fondo sulla morte di Shireen? I dati parlano da sé. Israele non dovrebbe avere alcun ruolo in un’indagine sull’omicidio di Shireen”, spiega lo scrittore Jalal Abukhater.
Le organizzazioni dei diritti umani come Amnesty international o Human rights watch hanno documentato nei loro recenti rapporti sull’apartheid in Israele come le indagini militari “non giungano quasi mai a buon fine”.
Resta il ricorso alla Corte penale internazionale.
Il 25 aprile 2022, un gruppo di organizzazioni per i diritti umani guidato dall’Ifj, aveva già presentato una denuncia che sostiene che le forze di sicurezza israeliane hanno commesso dei crimini di guerra contro i giornalisti palestinesi. Il ministro degli esteri dell’Autorità Palestinese Riad al Maliki ha recentemente dichiarato che l’Autorità ha portato il caso della morte della giornalista di Al Jazeera all’ufficio del procuratore della Corte.
Il portavoce dell’esercito israeliano Ran Kochav aveva fatto molto scalpore quando aveva dichiarato, dopo la morte di Shireen Abu Akleh, che i giornalisti palestinesi “sono armati di telecamere, se mi permettete di dirlo”.
Se lo si interpreta come un paradossale omaggio al giornalismo investigativo e alla ricerca della verità, potremmo dire che non aveva del tutto torto.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 26 maggio 2022