L’ipocrisia del “pianto greco” su donne stuprate, donne in fuga con bambini, anziani, malati, disabili, di cui in questi giorni traboccano giornali e telegiornali, sta nel fatto che pochi hanno il coraggio di dire che la guerra non fa che enfatizzare tragicamente spudoratamente un “ordine” dato come “naturale”: agli uomini il potere sui corpi delle donne, che si tratti di confinarle nel ruolo di madri, crocerossine, custodi della famiglia, o di umiliarle, violentarle, ucciderle nel privato, sacrificandole come vittime principali nelle loro guerre. La resistenza infinita delle donne non comincia con le guerre, ma è ancora purtroppo la terra su cui, in tempi apparentemente di “pace”, cresce il seme velenoso di altre guerre. A chi fa notare che ci sono anche donne soldato, rispondo che una volta inventata un’arma, chiunque la può usare. È quello che gli schiavi, i colonizzati, hanno sempre fatto, sia che combattessero a fianco dei loro oppressori, o contro di loro.
In questi giorni, a proposito dell’aggressione di Putin all’Ucraina, si è fatto da varie parti riferimento all’ 11 settembre 2001, l’attacco terroristico alle Twin Towers di New York. Casualmente o no, svogliando il mio libro Preistorie. Di cronaca e d’altro (Filema editrice 2004), una raccolta di articoli giornalistici di quei primi anni 2000, mi sono imbattuta in un altro dialogo a distanza tra me e Adriano Sofri, che aveva pubblicato su “Repubblica del 31/10/2001 un articolo riguardante le donne afgane. Il titolo era “Le donne invisibili”. Non era rivolto a me, ma era difficile per me non prendere parola su un tema che in qualche modo mi interpellava, come donna e femminista. Così è nato l’articolo “Caro Adriano”, uscito sul Manifesto il 5/10/2001. Lasciando altre considerazioni sulla specularità tra Bush e Bin Laden, che si accusavano reciprocamente di terrorismo, usando quasi le stesse immagini, del Bene e del Male, Dio e Satana, scrivevo: “Siamo così sicuri che questa logica apocalittica, che rende interscambiabili il bene e il male, che fa procedere il castigo sul filo della stessa spada del crimine, ci sia estranea, estranea alle nostre “guerre giuste”, al nostro modo di vedere e agire i conflitti? La pena di morte assomiglia molto, come è stato notato da più parti, alla volontà di ripagare il delitto con la stessa moneta.”
Forse oggi siamo in grado di riconoscere che quello che è parso per lungo tempo “necessario” era dovuto alla permanenza e alla irruzione nella storia di riflessi arcaici, restii a lasciarsi portare alla coscienza. Anche il dominio maschile può essere letto in questa chiave, come esito delle paure primordiali di un figlio rispetto all’organismo unico che l’ha generato, come desiderio che quel corpo resti dimora per il suo ritorno. Ma quando la “necessità” si allenta, la consapevolezza fa un salto, comincia a vedere altre vie, fuori dalla stretta della sopravvivenza: morte tua, vita mia.
Dire “No alla guerra” oggi, in qualsiasi forma si manifesti, significa per me essenzialmente due cose: non ignorare che le guerre sono state fino ad ora strumento di dominio e, contraddittoriamente, via obbligata di molte lotte di liberazione; riconoscere al medesimo tempo, alla luce di nuove consapevolezze, che le guerre hanno anche impedito di affrontare a fondo i conflitti, di risalire alle cause dell’odio che le muove, di prevenirle, di creare le condizioni per una migliore convivenza umana. Ci sono stati tanti e straordinari cambiamenti nella storia dell’umanità, perché non dovrebbe cambiare anche l’idea di ciò che è “reale” e “possibile”?
Non ultima per importanza è la riflessione su una violenza che ha le sue lontane, ma durature radici nel dominio e nella cultura patriarcale, in quella differenziazione originaria che ha visto il sesso maschile sottomettere il sesso diverso come “nemico”, escluderlo dal governo del mondo, cancellarlo come individualità, “sfogare su di lui la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo, ucciderlo” (Freud).
Nel venir meno di modelli virili socialmente autorevoli, nel declino delle istituzioni che dietro la maschera della neutralità hanno sedimentato valori, gerarchie, privilegi, divisione di ruoli, nel lento decadimento dei miti della forza e dell’onore, è come se si fosse prosciugato il terreno in cui scompariva ogni volta un tenero figlio, ancora in odore di madre, per far crescere un coraggioso guerriero. A uno strappo violento -come quello che separa e differenzia il maschio dal corpo femminile da cui è nato e con cui si è a lungo confuso- sono servite nel tempo svariate forme di iniziazione, addestramento e fedeltà a nuovi codici di appartenenza, per facilitare il passaggio dalla famiglia alle comunità sociali dei suoi simili, come l’esercito e la chiesa.
Il copione della virilità, destinato a ripetersi quasi senza variazioni nel corso di una vita, poteva contare in passato su attori e parti note già nell’ambito famigliare, figure parentali irrigidite da obblighi, doveri, rituali domestici, distribuzione di poteri, visibilmente in consonanza con le strutture portanti della vita pubblica. Patriarchi contadini, abbruttiti dall’alcolismo, non riscuotevano per questo minore obbedienza e rispetto. La violenza si confondeva con la legge, con la tradizione, con le norme comportamentali, con l’esercizio di un potere considerato “naturale”. Senza quel supporto, fatto di carne e passione, nessun ordine avrebbe potuto durare così a lungo, resistere alle discontinuità della storia, all’assalto delle nuove generazioni.
Quando le donne hanno cominciato a scostarsi dal posto in cui sono state messe -svilite o esaltate immaginariamente-, anche la collocazione dell’uomo ha perso i suoi contorni definiti e indiscutibili. La libertà, di cui ha creduto di godere la comunità storica maschile, svincolandosi dalle condizioni prime, materiali, della sua sopravvivenza, ha mostrato impietosamente la sua inconsistenza, portando allo scoperto un retroterra fatto di fragilità, paure e insicurezza. Ma a riportare un ordine patriarcale in declino ci pensa, come è già capitato più volte nella storia, la guerra: quella domestica dei femminicidi e quella sociale delle armi. Da una parte tornano a esserci “donne e bambini”, “madri e mogli” a cui dare rifugio e protezione e versare lacrime e fiumi di retorica politica, dall’altra la chiamata degli uomini al coraggio virile delle armi, compresi quelli che forse non lo vorrebbero, ma sono trattenuti, dalla paura di rinunciare ai benefici di un potere millenario e di essere considerati dei “rammolliti”.
Questo articolo è stato pubblicato su La stampa il 2 aprile 2022