La voce leggera e squillante quando dice «sono persone sbranate dai cani, io non posso che togliere il pus dai loro piedi e rendermi testimone delle loro vite». Lei è una donna molto bella. Ma potrebbe essere un’altra cosa: un volo di farfalla, un tintinnio, una mattina di primavera. Ha occhi grigi senza una goccia di commiserazione. E mani leggere da infermiera. Si chiama Lorena Fornasir, 67 anni, psicologa. Tutti i pomeriggi finché c’è luce va con suo marito Gian Andrea, 84 anni, professore di filosofia in pensione, nel piazzale davanti alla stazione di Trieste. Finiscono lì, tra le aiuole vicino alla ferrovia, gli immigrati che arrivano da est, dalle rotte balcaniche.
«C’era una fontanella, sa? Oltre alla statua della principessa Sissi qui c’era anche una fontanella. Gliel’hanno chiusa con la scusa della pandemia di Covid. Arrivano a volte dieci persone, a volte nessuno, a volte cinquanta. Sono affamati, assetati, spaventati. Hanno bevuto dalle pozzanghere. Vagato per i boschi. Spesso non dormono da giorni. Hanno scarpe rotte, segni di torture e piedi sempre feriti. Sono afgani, siriani, iracheni, kurdi, qualche yemenita». «Facciamo un gesto semplice. Scendiamo in strada, gli domandiamo chi sei, come ti chiami. Non sempre rispondono, a volte non hanno voglia di parlare. Si vergognano. Lavo i loro piedi, medico le ferite, metto le garze, do calze pulite». Perché lo fa? «Guardi, non ho fatto mai volontariato in vita mia. E non mi piace supplire allo Stato che dovrebbe assisterli. Arrivano qui stremati se soppravvivono al Game. Lo chiamano così il viaggio in cui puoi farcela e vincere, o essere un fallito e tornare indietro. O morire. In Bulgaria gli aizzano i cani d’assalto. In Croazia li rinchiudono nei container per due o tre giorni, tra i loro escrementi. Spesso li torturano, poi li rimbalzano indietro». Gli tolgono i vestiti, le scarpe. Quindicenni ricacciati con le scosse elettriche. Li inseguono nei boschi con i droni, con gli strumenti che rilevano il calore. «Li trovano e li bastonano».
Una cascata di parole, quasi senza respirare, come se dovesse buttarle fuori da dentro con urgenza, come se bruciassero. «Una mattina Trieste ha iniziato la giornata con il cadavere di un ventunenne al molo 6. Dove attraccano i mercantili, era afgano, è stato schiacciato tra due container. È morto stritolato. A Natale una ragazzina di dodici anni che tentava di arrivare qui è affogata in due metri d’acqua mentre attraversava un fiume in Croazia. Impossibile risalire al suo nome. Di là dal confine la polizia quando li trova in gruppo li accerchia. Ne prende uno e lo massacra di botte. Quelli che ce la fanno hanno addosso i segni di torture anche psicologiche profonde, sono ragazzi minacciati di morte, hanno visto amici cadere e sparire. Se scendi in strada, se li vedi, come puoi tornare a casa tua?». Le rotte balcaniche principali sono due. Una va dalla Grecia in Macedonia e in Serbia settentrionale passando da nord. Ora è la meno usata. Vanno in Bosnia, attraversano il fiume o camminano lungo i ponti della ferrovia. Oppure passano da sotto, verso il mare. Dalla Grecia verso l’Albania e poi in Montenegro e da lì in Bosnia. La rotta negli ultimi due mesi è scesa più in basso, lungo la costa e il flusso è rallentato.Una cascata di parole, quasi senza respirare, come se dovesse buttarle fuori da dentro con urgenza, come se bruciassero. «Una mattina Trieste ha iniziato la giornata con il cadavere di un ventunenne al molo 6. Dove attraccano i mercantili, era afgano, è stato schiacciato tra due container. È morto stritolato. A Natale una ragazzina di dodici anni che tentava di arrivare qui è affogata in due metri d’acqua mentre attraversava un fiume in Croazia. Impossibile risalire al suo nome. Di là dal confine la polizia quando li trova in gruppo li accerchia. Ne prende uno e lo massacra di botte. Quelli che ce la fanno hanno addosso i segni di torture anche psicologiche profonde, sono ragazzi minacciati di morte, hanno visto amici cadere e sparire. Se scendi in strada, se li vedi, come puoi tornare a casa tua?». Le rotte balcaniche principali sono due. Una va dalla Grecia in Macedonia e in Serbia settentrionale passando da nord. Ora è la meno usata. Vanno in Bosnia, attraversano il fiume o camminano lungo i ponti della ferrovia. Oppure passano da sotto, verso il mare. Dalla Grecia verso l’Albania e poi in Montenegro e da lì in Bosnia. La rotta negli ultimi due mesi è scesa più in basso, lungo la costa e il flusso è rallentato.
«Fino al 18 dicembre del 2021, arrivati in Italia venivano respinti senza foglio d’espulsione, senza nulla. La polizia li prendeva e li sbatteva indietro. Impossibile appellarsi a una norma se non hai un documento che attesti l’espulsione. L’Italia li rispediva di fatto alla Croazia gonfiata di soldi europei per proteggere i nostri confini. Dopo un ricorso vinto dall’avvocata Caterina Bove le deportazioni che non lasciano traccia dovrebbero essere impedite». Come si comporta con voi la polizia? «Ci lasciano fare, fanno finta di non vederci finché gli togliamo le castagne dal fuoco. Gli immigrati della rotta balcanica sono qui di passaggio, Vogliono salire sul treno per Milano, per Torino Val di Susa. Vogliono andare in Francia, in Germania». Alla stazione con lei chi c’è? «All’inizio e per tanto tempo siamo stati solo io e Andrea, Trieste è una città fascista. Ci ignora quando non è ostile. C’era un centro di primo soccorso. Hanno chiuso anche quello. Chi non parte subito va a dormire in una struttura fatiscente del vecchio porto austriaco. Scavalcano la recinzione e si rifugiano lì dentro. Ogni tanto ci sono degli sgomberi». «Io che non avevo mai usato facebook in vita mia, ho dovuto cercare aiuto con i social durante l’ondata della prima rotta balcanica, chiedevo: dove sono le organizzazioni umanitarie? Sono arrivate persone piano piano. Abbiamo dovuto formare un’organizzazione di volontariato (lineadombra.org una volta al mese vanno in Bosnia, portano ai migranti vestiti, calze, scarpe ndr). A volte siamo ormai una quindicina davanti alla stazione di Trieste, Ricercatori universitari. Studenti. Persone che vengono da fuori».
Lorena Fornasir, che lavorava come psicologa clinica alla Asl di Pordenone, era giudice onorario per le adozioni al Tribunale di Trieste. Era. Perché l’anno scorso un sostituto procuratore di Trieste – un collega – ha accusato lei e suo marito per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a scopo di lucro. Una nota della questura che dava allora la notizia precisava: “l’attività investigativa è stata condotta dalla Digos di Trieste, supportata dal Servizio per il Contrasto all’estremismo e al terrorismo esterno”. Il fatto: avevano ospitato in casa per una notte una famiglia kurda con due bambini piccoli. Il fascicolo era stato mandato alla procura di Bologna, non potendo Lorena Fornasir essere giudicata nello stesso tribunale in cui prestava servizio. Il giudice per le indagini preliminari di Bologna ha disposto l’archiviazione su richiesta del pm perché non esistevano “elementi in grado di consentire la sostenibilità dibattimentale dell’accusa”. Lorena Fornasir, che nel frattempo era sospesa dalla funzione, ha mollato.
Dall’Ucraina stanno arrivando profughi? Lei parla d’altro. Suo marito racconta: «L’altro giorno siamo arrivati al confine Fernetti. Sul Carso, dodici chilometri dal centro di Trieste. C’erano cinquecento persone. Mi ha colpito la differenza nell’accoglienza. C’era la Croce rossa, c’erano attivisti di varie organizzazioni. Profughi accolti come profughi. Gli altri invece devono nascondersi dietro ai cespugli come cani. Eppure vengono da luoghi in cui nemmeno le forme più elementari di sopravvivenza sono possibili. Io ho ottantaquattro anni, vedo la loro speranza e sinceramente non vedo per loro un futuro decente, per dare un senso alla mia vita e alla mia morte io sento che devo aiutare queste persone».
Lorena Fornasir è figlia di partigiani. Di sua madre dice: «Borghese, cattolica, antifascista, mi ha lasciato un’eredità sottile. Aveva studiato in Convitto. Sapeva di medicina. È stata un’agente di Tito. Drogava i gerarchi fascisti, ha salvato molte persone. In Slovenia fino all’8 settembre aveva il nome di battaglia di Natasha. Poi fu fatta passare nelle file partigiane italiane con il nome di Anna. Lì conobbe mio padre. Nome di battaglia: Ario. Era il comandante della Ippolito Nievo B a Gorizia». Pausa. «Quando curo i piedi di questi ragazzi, dal basso posso guardare i loro occhi. Si vergognano molto a farsi curare i piedi, mi dicono “scusa mamma, scusa mamma”. Mi prendono le garze per pulirsi da soli, sono piedi che puzzano come pannolini. Loro mi riconoscono come persona e io li riconosco. Con un gesto semplice si crea una grande intimità con uno sconosciuto. La loro energia è una sorgente. È un dono reciproco che ci facciamo. Vedendo loro, come possiamo sopportare le nostre vite?»
Questo articolo è stato pubblicato su Il Riformista il 30 marzo 2022