Si scrive De Luca. Si legge rischio di degenerazione politica e istituzionale, dentro un indebolito sistema Italia. Nadia Urbinati, docente alla Columbia University di New York, politologa e già presidente di Libertà e Giustizia, è tra i firmatari della lettera indirizzata al segretario Pd Enrico Letta da una folta pattuglia di intellettuali. Se ne discute oggi al Palazzo delle Arti di Napoli. «Ma il tema, sa, non riguarda mica solo la Campania».
Professoressa Urbinati, partiamo da qui. Perché una studiosa
naturalizzata americana si occupa di De Luca?
Cosa la colpisce di più?
«Difatti non c’è solo il tema De Luca. Ma esiste un problema di relazione dei leader nei confronti dei partiti e delle istituzioni, che è preoccupante ed è bene incarnato dalla vicenda del governatore della Campania».
Si riferisce all’ipotesi del terzo mandato, ufficialmente invocata dal governatore?
«Tanto per cominciare, quello è un elemento indicativo di una deriva.
Lui è proprio la punta del famoso, seccante iceberg. Già in passato l’idea balzana era circolata, a proposito di sindaci e di governatori. Ecco, io sono contraria e credo che il Partito democratico lo debba essere in maniera particolarmente ferma».
De Luca non è solo in questa battaglia: sostiene che 15 anni siano un tempo congruo per consentire la rivoluzione del buongoverno sui territori.
«Certo, so bene che da sinistra e da destra ci sono altri governatori o sindaci a pensarla come lui. Ma è invece un principio delle democrazie quello di rispettare un tetto di un paio di mandati per evitare che si formi una classe politica inamovibile, immobile, all’interno delle istituzioni.
Ricordiamoci la lezione di Norberto Bobbio sulla circolarità del potere».
I termini temporali sono un indice di salute della classe politica?
«Assolutamente sì. Il tetto dei due mandati è fondamentale: perché, da un lato, consente la governabilità e la visione estesa a un tempo più ampio, non schiacciata sul presente; ma, dall’altro lato, scongiura, la formazione di cerchi o corti chiuse. Ecco, l’espressione è abusata in giorni come questi, ma è vero che abbiamo anche noi i nostri piccoli oligarchi».
Nell’analisi della prassi deluchiana cui spinge la vostra lettera, c’è l’elemento del familismo tollerato. È un difetto che non indigna più nessuno?
«Ci siamo assuefatti, temo. Per meglio dire: noi no, neanche il cittadino. Ma chi opera nel potere, dai vertici ai compagni di banco, non reagisce con accenti di condanna o di riprovazione. E questo rappresenta un bel rischio. Perché le democrazie che si trasformano anche gradualmente, perfino inavvertitamente, in cerchie ristrette di fedelissimi, ancor di più se discendenti diretti, familiari, sono qualcosa che appartengono ai secoli passati. Bisognerebbe avere, a qualunque livello, la prontezza di riconoscere il vulnus e bloccarlo appena si presenta ai nostri occhi.
Anche perché c’è sempre qualcuno, lì nei pressi o dopo, che lo prende ad esempio per appigliarsi al precedente tollerato».
Perché la modalità De Luca non è stata arginata subito?
«Per vari motivi, credo. Il principale dei quali è che ogni Regione è diventato un piccolo Staterello. E la dissociazione del Paese in tante regioni, che si auto rappresentano, si autogovernano, è esattamente una deriva pericolosa…».
A cui potrebbe dare un colpo di grazia il mai sopito disegno del regionalismo differenziato?
«Sì, un pericolo anche più grande. È tornato di nuovo in questo periodo: in forme diverse, ma tiene insieme i governatori del Nord-est, con le loro pretese di spaccare anche settori fondamentali come l’Istruzione e la Sanità. e i disegni di altri presidenti, come Bonaccini e De Luca. Le Regioni hanno un mare di soldi e ovviamente decidono, indicano priorità. De Luca poi punta molto, a me pare, anche come linguaggio, sulla motivazione: sono uno di noi, so ben io cosa ci vuole per il mio popolo, quale polso, quale decisionismo, per esempio. E questo è proprio uno dei volti del populismo. Che si associa anche ad una sempre maggiore perdita di capacità di scelta e di voto, da parte del cittadino».
A cosa si riferisce in particolare?
«Pensi alle Città Metropolitane: per il cui Consiglio votano altri eletti, non i cittadini. E anche questi enti gestiscono molti soldi, ed il popolo non può controllare né comprendere granché».
Quindi il caso De Luca racconta di una fragilità del sistema?
«È una vicenda italiana. È il frutto di un assetto politico e istituzionale sempre più debole, sempre meno autorevole e credibile. Per questo è bene che il Pd, in particolare, si dia una scossa».
Questo articolo è stato pubblicato su la Repubblica il 23 marzo 2022