Bisogna dare atto a Enrico Letta di aver interrotto il lunghissimo silenzio che ha caratterizzato il rapporto con Vincenzo De Luca da parte dei gruppi dirigenti nazionali che si sono succeduti alla guida dei partiti scaturiti dalla fine del Pci. Si è trattato finora di un silenzio complice nei confronti di un uomo politico che non ha eguali nella storia della sinistra italiana e che per durata, solidità di interessi e promozione di fedelissimi può paragonarsi solo al potere della famiglia Gava.
Forse per alcuni dei leader del Pci, poi dei Ds, del Pds e infine del Pd, si è trattato di un silenzio timoroso delle sue sguaiate reazioni: De Luca resterà famoso per le sue offese alle persone in base all’aspetto fisico ( “chiattona ” definì una sua avversaria di un tempo), ai cognomi (ha alluso al brodo vegetale che si fa con le cipolle a proposito di una dirigente stimata del ministero dei Beni ambientali e culturali rea di chiamarsi Cipollone) al colore della pelle (triste per un partito di sinistra sopportare le sue invettive contro gli immigrati), per il sessismo negli epiteti o per le sue minacce a coloro che lo criticano (a un famoso giornalista disse che avrebbe voluto incontrarlo da solo in un vicolo al buio).
De Luca ha sempre concepito il potere come umiliazione degli avversari, come sopraffazione di chi dissente, come invettiva ridicolizzante contro l’altrui pensiero, quindi lo si può definire a ragione un “bullo delle istituzioni”. Cos’è un bullo se non uno che cerca di fare leva sui presunti difetti fisici degli altri o sui differenti gusti sessuali per umiliarli, ridicolizzarli, mortificarli, sopraffarli? E che cambia se lo si fa solo con le parole? Anche le parole sono armi, a volte più violente delle mani.
Quindi se i dirigenti nazionali di un partito politico (che è in prima linea nel combattere il bullismo come un’odiosa forma di violenza) si spaventano per le parole di un bullo istituzionale, vuol dire che il potere intimidatorio di De Luca è arrivato a un punto limite oltre cui un partito perde la dignità dei suoi dirigenti e il silenzio diventa “incoraggiante”, come appunto avviene quando si ha a che fare con il bullismo. Ma una cosa è la paura paralizzante che prende un ragazzo quando è oggetto dello scherno di un coetaneo prepotente e una cosa è il timore di un adulto che dirige un partito o un ministero della Repubblica.
In questo secondo caso non esiste nessuna giustificazione: non reagire è masochismo o è complicità, e in ogni caso è un silenzio che istiga a commettere ulteriori soprusi e umiliazioni, quasi un silenzio vigliacco. Perciò plaudo a Franceschini, a Provenzano e, fuori dal Pd, al generale Figliuolo che, offeso più volte dal presidente della Regione Campania, ha reagito dimostrando come la dignità di un militare e di uomo delle istituzioni non può essere calpestata per nessun calcolo di opportunità.
Non so se è un caso che poco dopo la pubblicazione della lettera a Letta di alcuni esponenti della società civile campana e italiana (che anche io ho firmato e che oggi viene presentata a Napoli) il Pd nazionale ha deciso di intervenire obbligando il segretario regionale della Campania, Leo Annunziata, a dimettersi per evitare il commissariamento. Voglio illudermi che un nesso ci sia e che a volte gridare nel deserto possa ricevere ascolto da qualche oasi democratica. Ho l’impressione che Letta sia capace di ascolto e con i suoi modi prudenti (troppo, secondo il parere di diversi miei amici iscritti al Pd) cerca di rispondere al bisogno di rompere la cappa di intimidazioni e di abusi che ha caratterizzato i comportamenti di De Luca.
Ma una volta che ha deciso di intervenire, Letta non può che andare fino in fondo, altrimenti sostituisce al silenzio incoraggiante ( o complice) dei suoi predecessori un interventismo impotente. Quando si sfida encomiabilmente la prepotenza locale, bisogna sapersi attrezzare e usare efficacemente il potere nazionale.
Che cambia se a un segretario regionale amico di Piero De Luca si sostituisce uno alle dipendenze di Vincenzo De Luca? Si dimostra solo che sono sempre loro a comandare in Campania e il gattopardismo continuerà a segnare inesorabilmente le grandi e piccole storie politiche nel nostro Mezzogiorno. Sta di fatto che lo stesso dirigente nazionale che segue la vicenda della sostituzione di Annunziata, Francesco Boccia (e che guarda di buon occhio la sostituzione con Graziano) è lo stesso che ha accettato che venisse nominato vice presidente del gruppo del Pd alla Camera il figlio di De Luca, parlamentare alla prima esperienza e che non si era distinto affatto per doti così evidenti di competenza da meritare tale incarico (a proposito della meritocrazia che dovrebbe ispirare un partito della sinistra che non vuole che le favorevoli condizioni di partenza blocchino la riuscita di chi non ne dispone).
E questo continuo ricorrere a quadri della provincia di Salerno e Caserta non è anch’esso sintomo di una tutela dei collegi elettorali di famiglia? La democrazia non è basata solo sui voti e sul consenso ( questo è il metodo non la sostanza) ma sul contrappeso tra poteri. Nel nostro caso chi controlla le istituzioni non può mettere uomini suoi alla guida del partito di cui è parte. È una norma elementare, che nel sistema De Luca non viene minimamente praticata da quando lui è al potere. Lui odia il partito di cui è parte e poi se ne impossessa e ne tenta la scalata, denigra i dirigenti nazionali e locali e poi ci fa gli accordi. Come si può definire questa patologia? Chi disprezza vuol comprare? È un proverbio che però andrebbe interpretato alla lettera.
Con De Luca la politica si identifica totalmente con chi fa parte delle istituzioni; i partiti diventano delle appendici fastidiose degli incarichi istituzionali; le ambizioni personali giustificano qualsiasi idea che sia strumentale alla permanenza sulla scena politica. Cosa ha a che fare questa concezione utilitaristica dei partiti e della politica con le prospettive di una forza progressista forte e tranquilla che Letta vuole assegnare al Pd? Di baluardo contro la regressione localista, sovranista e familista che riemerge anche in alcune posizioni di leader meridionali al governo delle Regioni?
De Luca è portatore di una visione “clanica” della politica e dei partiti, cioè di clan territoriali e familiari che sostituiscono il crollo degli ideali politici con l’appartenenza di sangue e di luogo, e la relativa fedeltà che ciò impone. Consiglio perciò a Enrico Letta di leggere, oltre il libro “Una profezia per l’Italia” di Aldo Schiavone ed Ernesto Galli Della loggia ( uno splendido j’accuse contro il regionalismo meridionale di De Luca ed Emiliano) anche il libro “L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan” di Fabio Armao, in cui si teorizza che la consanguineità e il localismo sono i nuovi parametri di promozione della politica nell’epoca della fine dei partiti. I clan infatti ritengono del tutto legittimo proteggere i propri membri, e se necessario garantire loro forme di immunità che li pongono in una posizione di privilegio rispetto a un normale cittadino.
Il clan De Luca questo sta facendo in Regione dal 2015 e prima al Comune di Salerno. Perciò proponiamo al Pd nazionale di battersi con noi, ma sul serio, contro il terzo mandato in Campania, in Puglia, in Veneto, in Liguria e dovunque dovesse essere proposto. La democrazia e i partiti in epoca moderna si sono affrancati dal peso delle famiglie e dal condizionamento dell’appartenenza territoriale; era questa una condizione per far prevalere i valori sugli interessi. Come possiamo chiedere all’Italia di occuparsi del Sud quando alla guida della sua regione più popolata si continua ad accettare che sia un clan familiare, amicale, territoriale e correntizio a gestirla?
Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 23 marzo 2022