Carriere dei magistrati separate di fatto; non una parola sull’autonomia per accompagnare le ragioni del no sulla responsabilità diretta. Debole anche il no al quesito sull’eutanasia.
In una lunga conferenza stampa il Presidente Amato ha inteso illustrare i motivi delle decisioni assunte. Non tutte le ombre vengono fugate. Sulla cannabis viene addotto un errore tecnico nel quesito, che ne avrebbe spostato gli effetti sulle droghe pesanti, con violazione di obblighi internazionali plurimi e inidoneità rispetto al fine dichiarato. Se è così, rimane da chiedersi come possa essere accaduto. Quanto alla responsabilità diretta dei magistrati, siamo lieti della inammissibilità.
Ma avremmo voluto veder richiamata la lesione – certa – dell’autonomia e indipendenza del giudice, bene di sicuro costituzionalmente protetto. Si trova invece la ragione – formalistica – dello snaturamento della natura del referendum, non più meramente abrogativo. Ma davvero? Invece, il referendum sulla separazione delle carriere – pur lunghissimo e oscuro – è ammissibile, e non riguarda le carriere, ma le funzioni. Invece, costruendo due percorsi separati dopo la prima scelta, definisce di fatto proprio una carriera.
Ma la risposta più debole la troviamo sull’inammissibilità decisa per l’omicidio del consenziente. Tutto nasce, secondo Amato, dall’erroneo uso da parte di proponenti e sostenitori della parola “eutanasia”. Perché nella normativa di risulta l’art. 579 del codice penale apre a una casistica ben più ampia di quella che appropriatamente il termine eutanasia può coprire. Ma è davvero solo una questione di parole?
Ricordiamo che il comunicato aveva fatto riferimento a una “tutela minima costituzionalmente necessaria” della vita umana, sia per le persone deboli e vulnerabili, sia – qui è un punto da guardare con particolare attenzione – “in generale”. Nessuno mette in dubbio che la vita umana sia un bene primario. Ma nella vicenda referendaria in atto, come in quella del suicidio assistito e del fine vita in genere, la questione è: può il titolare del diritto – la persona umana – liberamente scegliere se, come e quando porre fine alla propria vita, o no?
Fino a ieri, avrei risposto sì. Dall’art. 32 della Costituzione – affiancato anche da strumenti normativi sovranazionali – si trae un chiaro principio di autodeterminazione. La persona in buona salute, o malata ma nel pieno delle proprie facoltà, ha un incontestabile diritto di morire, come e quando vuole. Se questo è vero, alla persona “debole e vulnerabile” non può negarsi lo stesso diritto. Si può solo discutere del percorso volto all’accertamento della sua volontà, tale da garantire che non vi siano dubbi, ambiguità, suggestioni improprie, violenze occulte. Le opinioni diverse – inclusa quella di un papa a molti caro come Francesco – sono legittime, ma non sono scritte in Costituzione.
Nell’essenza, è questa la linea seguita dalla Corte nella pronuncia 242/2019 (caso Cappato), che Amato ha ampiamente richiamato. Ma è ancora vero dopo la decisione odierna? Una “tutela minima costituzionalmente necessaria” della vita umana, sia per le persone deboli e vulnerabili sia – e questo in specie preoccupa – “in generale” renderebbe costituzionalmente compatibile un sondino nasogastrico per l’alimentazione artificiale o una trasfusione di sangue imposti forzosamente? Andiamo verso uno scenario in cui si ammette solo la cura palliativa? È realistica la prospettiva di una abnorme espansione delle richieste di morte delineata da Amato in conferenza stampa? Non bastavano i limiti comunque rimasti nella normativa di risulta per l’omicidio del consenziente? Dove ci porta l’inammissibilità riferita anche all’inciso “in generale”?
Certo, la materia meglio si affronta con una legge piuttosto che con un referendum. Ma questa non è una ragione per mettere sotto tutela il popolo italiano negando la richiesta referendaria avanzata da tanti cittadini. Amato ha anche indicato che in sede di giudizio incidentale si potrebbe giungere a una soluzione analoga al caso Cappato. Vogliamo dunque credere che l’inciso “in generale” sia sfuggito all’estensore del comunicato, e non trovi spazio nella sentenza. Si eviti di configurare in alcun modo un “obbligo di vivere”, mettendo a fuoco solo l’accertamento della volontà per le persone “deboli e vulnerabili”, e mantenendosi senza sbandamenti nel solco della sentenza Cappato. Diversamente, avremmo un difetto o un pelo nell’uovo, come ama dire lo stesso Amato, non già nel quesito, ma nella decisione della Corte.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 17 febbraio 2022