Non ho mai condiviso il luogo comune secondo cui le sentenze non si commentano né si giudicano, almeno fino a che non se ne leggono le motivazioni. Ci sono sentenze che gridano vendetta al cospetto di dio fin dal dispositivo. Quella finale che ha chiuso il processo per la strage di piazza Fontana senza nessun colpevole, per esempio. O quella sulla strage ferroviaria di Viareggio. O ancora quella sull’eccidio infinito dell’Eternit di Casale. La sentenza del tribunale di Locri contro Mimmo Lucano e il suo “modello Riace” aveva già fatto inorridire molti di noi al momento del giudizio (condanne doppie rispetto alle richieste dello stesso Pubblico ministero). Ora, lette le motivazioni (904 pagine), la sensazione di trovarsi di fronte a uno scandalo giudiziario è rafforzata. Non solo un’ingiustizia, ma un capovolgimento kafkiano della realtà: della stessa realtà documentata negli atti processuali ampiamente riprodotti, come se i fatti, nel loro passaggio attraverso il labirinto mentale del giudice, mutassero senso e natura, in una metamorfosi mostruosa che rende i protagonisti irriconoscibili per chiunque li abbia conosciuti, da vicino o da lontano.
Così il grande sogno di fare di questo piccolo borgo semiabbandonato della Locride un luogo dell’accoglienza dei migranti e insieme di recupero del territorio (la trasformazione del migrante da problema in risorsa territoriale: questa l’idea geniale che stava dietro quel “modello”) si rovescia, nella rappresentazione giudiziaria, in sordido esempio di “logica predatoria” in cui il denaro pubblico e i progetti ministeriali d’integrazione figurano come meri strumenti “asserviti agli appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica”, di un sindaco criminale. Chiunque sia stato anche solo qualche giorno a Riace, e abbia visto quella comunità (ora distrutta) farsi giorno per giorno, e la vita ritornare tra le antiche pietre, sa quanto “pulito” fosse quel progetto. Evidentemente chi ha in mente solo la sporcizia della vita, vede tutto sotto questa forma. E infatti i soliti giornali della peggior destra si sono riconosciuti immediatamente in quell’aberrazione giudiziaria, facendola propria. “Libero”, quello che a suo tempo aveva sparato in prima sui migranti che “Dopo la miseria portano malattie” ora titola: “La sentenza che inchioda Lucano e la sinistra”. Gli fa eco il “Tempo” – che i migranti li butterebbe a mare – con “Lucano derubava i migranti”. Spiace che al coro truculento si accodi anche Marco Travaglio con un tombale “Accusati di essere troppo cattivi con Mimmo Lucano, dalle motivazioni della sua condanna scopriamo di essere stati troppo buoni”.
Lucano – a differenza di molti difesi da “Libero” e dal “Tempo” e fustigati da Travaglio – non si è messo nemmeno un centesimo in tasca. Lo scrive lo stesso giudice che “l’ex sindaco sia stato trovato senza un euro in tasca”, anche se subito aggiunge che questo “nulla importa” perché lui sa bene che l’utile, il furbacchione (termine di Travaglio) lo lucrava comunque, in immagine, successo politico, investimento per la vecchiaia (l’estensore delle motivazioni immagina di entrare nella testa stessa dell’imputato, per leggervi le reali intenzioni, non suffragate da nulla). E qui davvero il carattere “bipolare” dello schema che sta dietro questa sentenza – oggetto più da scienze cognitive e della psiche che non di quelle giuridiche – travolge il lettore, come una sorta di play in the play: di vertigine psichica in cui appare piuttosto evidente che il profilo da Dottor Jekill e Mr. Hide di Mimmo Lucano quale emerge dalla lunghissima requisitoria del giudice di Locri altro non è, in realtà, che la proiezione esternalizzata in un contesto fantastico della struttura tendenzialmente sdoppiata o, appunto, “bipolare” [qualcuno potrebbe definirla “schizoide” nel senso non clinico del termine] del testo letterale delle motivazioni nelle quali, senza praticamente soluzione di continuità, si susseguono un elogio sperticato del “modello Riace” e un’altrettanto estrema deplorazione dell’uomo che l’ha inventato e realizzato, come se il diavolo potesse produrre l’acqua santa e viceversa. Da una parte “si dà atto dell’integrazione virtuosa e solidale che nei primi anni veniva senz’altro praticata su quel territorio, ove si era riusciti mirabilmente a dare dignità e calore a uomini e donne venuti da terre remote, cercando di alleviare i loro percorsi di vita fatti di stenti e dolore” (sic! p. 60); si scrive addirittura che dall’indagine e dalle parole stesse di Lucano è “senz’altro emersa una pura passione che lui ha nutrito per anni per quel mondo nuovo che ha saputo creare, ispirandosi agli ideali utopici della Città del Sole di Tommaso Campanella, che egli ha inteso reinterpretare con un misto di genialità e di intuito politico ‘illuminato’, di cui occorre dargli merito, e che giustamente hanno ricevuto cosi tanta eco e apprezzamenti internazionali” (p. 96). Dall’altra si stigmatizzano i “meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità, che […] si sono tradotti in forme di vero e proprio ‘arrembaggio’ ai cospicui finanziamenti che arrivavano in quel paesino, che per anni era stato economicamente depresso, tanto da tradursi in una sottrazione sistematica di risorse …, che pure erano destinate a favore di quelle persone più deboli, del cui benessere e della cui integrazione, però, nessuno si interessava più” (p. 61). In mezzo, un capovolgimento assoluto della natura delle cose che nell’interpretazione giudiziale sarebbe maturato nel momento in cui il “sindaco santo” avrebbe capito che le risorse destinate ai migranti eccedevano le necessità e, tramutatosi in “sindaco dannato”, avrebbe deciso di lucrarvi; ma che in realtà, a leggere attentamente il testo della sentenza e gli ampi brani documentari frutto di costanti intercettazioni lì riportati, è l’effetto semantico di un clamoroso ribaltamento del senso delle frasi riportate, sistematicamente ricondotte a un significato esattamente opposto a quello del relativo significante (un senso perfettamente capovolto rispetto a quello letterale delle parole).
Per avere pienamente la misura di questa “operazione” è bene a questo punto focalizzare sia pur brevemente l’attenzione sulla materia del contendere (in termini giudiziari). Cioè sulla sostanza delle accuse mosse a Lucano e alla sua “associazione a delinquere”. A ben guardare i crimini si ridurrebbero a tre: l’aver trattenuto più a lungo dei 900 giorni permessi un certo numero di migranti (i cosiddetti “lungo permanenti”, a cui sono dedicate decine e decine di pagine); l’aver investito alcune somme dei sussidi statali in migliorie del contesto (un frantoio, alcune case-albergo) per attrezzare il territorio ad una adeguata abitabilità; aver speso una parte di quei sussidi pubblici in concerti e spettacoli al fine di attrarre attenzione e turisti nel borgo. Le cose che ogni buon sindaco dovrebbe fare, soprattutto in quelle aree interne a rischio di abbandono di cui tanto si parla e per cui tanto poco si fa. Il tutto con un certo numero di forzature, di atti irrituali e di violazioni amministrative (che sono indubbie, ma che non meritano certo sanzioni riservate neppure ai colpevoli di reati di mafia) . Del resto chi lavora in quei contesti sa benissimo che se non si consolida la permanenza nei luoghi, se non si radicano i nuovi abitanti in un tessuto vivo e capace di produrre reddito, le misure di accoglienza sono come acqua sulle pietre. E che un buon sindaco ha non solo il diritto ma il dovere di valorizzare e riqualificare il territorio del proprio comune, tanto più se questo ha subito un processo di spopolamento e dequalificazione, favorendo il ripopolamento con misure di stabilizzazione dei nuovi “arrivanti” ed evitando che le pratiche, spesso costose, di accoglienza, si riducano a effimeri passaggi e a flussi in costante movimento, che riprodurrebbero la medesima logica di abbandono e sradicamento che aveva impoverito quei luoghi. Questo facevano appunto Lucano e i suoi “criminali associati”, investendo in un frantoio, in abitazioni destinate all’accoglienza sia turistica che migrante, in botteghe artigianali ed etniche, che costituivano appunto la vita che “ritornava a Riace”. Ma né i giudici di Locri né i virtuosi della penna al veleno lo sanno, e comunque non gli interessa. Conta lo spettacolo crudele della virtù infangata nella terra dei troppi vizi ‘ndranghetisti.
Ora – è importante soffermarsi su questo aspetto, perché lì si incardina quello che ho definito il “capovolgimento semantico” che fa da baricentro alla sentenza – nei brani di interviste utilizzate dal giudice di Locri per elaborare la propria personale narrazione e costruire la figura del “criminale Lucano”, il sindaco di Riace parlava esattamente delle cifre necessarie a realizzare quegli investimenti virtuosi – i famosi “700 o 800.000 euro” -, necessari a garantire non il futuro personale di se stesso, come malignamente il giudice insinua, ma del territorio e dei suoi (vecchi e nuovi) abitanti. E lo ripeterà un’infinità di volte, nelle conversazioni oggetto d’intercettazione ambientale, che di quei soldi neppure un euro era (e sarebbe) rimasto attaccato alle sue mani. Ripeterà anche, in un passaggio davvero toccante, se ascoltato con animo equo, dichiarando tristemente la propria stanchezza, e la tentazione di chiudere lì quell’esperienza che aveva segnato la sua vita, che il suo futuro non sarebbe affatto dipeso da quelle risorse, ma se lo immaginava lontano, nel ritorno all’insegnamento o, successivamente, nel circuito della cooperazione internazionale, con uno stipendio mensile da 1200 euro, perché gli bastava poco per vivere. Dice anche che sul suo conto gli erano rimasti 700 o 800 euro, quanto gli serviva per pagare la rata della macchina. E che lo stesso ufficiale della Guardia di Finanza che aveva indagato sulle pratiche “incriminate” del Comune di Riace, il tenente colonnello Sportelli, aveva riscontrato la sua perfetta onestà e buona fede, l’assenza totale di qualsiasi uso personale di quel denaro. D’altra parte quell’ufficiale lo aveva ribadito anche in giudizio e la constatazione era stata fatta propria dalla stessa accusa. Ciò nonostante nella sentenza si continua ad affermare che a Lucano “sarebbe sempre rimasto il guadagno che aveva conseguito con le attività predatorie dell’accoglienza”. Che gli “investimenti” in strutture migliorative del contesto territoriale erano in funzione della preparazione di un suo futuro privilegiato economicamente e politicamente. E addirittura che le affermazioni registrate nelle intercettazioni (di cui l’imputato era all’oscuro) sarebbero state fatte allo scopo di ingannare consapevolmente gli inquirenti, con mefistofelica furbizia (lo si descrive come convinto di “aver attuato una simulazione perfetta, con la quale si era sforzato di apparire all’esterno come un uomo retto ed onesto”). Bizzarro esempio di come chi ha utilizzato “subdolamente” una tecnologia (quale quella destinata all’intercettazione) si convinca del carattere “subdolo” di ciò che quella tecnologia gli restituisce (feticismo della tecnica? O mimetismo informatico?) anziché accettare ciò che oggettivamente essa rivela.
La cosa è tanto più grave in quanto questa sentenza, nel suo carattere di “monstrum”, non pesa solo sulla esistenza personale di Domenico Lucano, che, come si legge nelle intercettazioni, voleva “uscire a testa alta” a conclusione di una vicenda più che trentennale in cui aveva pagato un costo altissimo in termini economici e di affetti famigliari e che invece è stato coperto di fango da un meccanismo inquisitorio disennato. Pesa e peserà come un macigno anche su tutti quei sindaci e amministratori locali delle cosiddette “aree interne” che volessero darsi da fare per salvare i propri territori dal degrado e dall’abbandono. Essa sta lì come un memento mori, a dirgli che la loro solitudine non sarà perdonata, che nessuna buona intenzione li salverà dall’inflessibile meccanismo di una burocrazia che non ammette sbavature nè scostamenti, anzi verrà guardata con sospetto e ostilità. Riace, nel quadro che emerge dallo stesso immenso castello di carte della sentenza, era sola, nel suo progetto visionario, schiacciata da un quadro regolamentare e normativo ingestibile da chiunque non avesse a disposizione una macchina organizzativa (uffici legali, commercialisti, consulenti capaci di muoversi nel ginepraio delle rendicontazioni, dei database, delle disposizioni prefettizie governative ed europee, SPRAR, CAS, MSNA…) che solo una multinazionale o una cosca mafiosa potrebbero permettersi. Con i suoi “dilettanti allo sbaraglio” – le Cosimine (Ierinò), i Tonini (Capone), le Lemlen – Mimmo Lucano e la sua Riace avevano la sorte segnata. Come, con sulla testa la spada di Damocle di una sentenza di tal fatta, chiunque, in una terra desolata, si mettesse in testa di sollevare lo sguardo e seguire un progetto di rinascita.
Infine, sia detto en passant anche se tocca un aspetto non secondario della faccenda ovvero la questione dei mandanti “di potere” di quanto è avvenuto, un’ultima domanda, che mi gira sullo stomaco: si è accorto Travaglio, leggendo “le carte”, del ruolo significativo nella damnatio di Mimmo Lucano, svolto da un certo Michele Di Bari, al tempo prefetto di Reggio Calabria: l’uomo che tenne nel cassetto una relazione dei propri ispettori elogiativa per Riace e che innescò l’azione della Procura contro il suo sindaco? E’ lo stesso alto funzionario voluto da Matteo Salvini, al tempo in cui era ministro dell’interno, al Viminale a occuparsi di contrasto ai migranti e costretto di recente alle dimissioni perché la moglie è indagata per una brutta storia di caporalato e di sfruttamento dei migranti. A ognuno i propri amici. E nemici.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 19 dicembre 2021