La sentenza di Locri rappresenta la legge che non difende gli ultimi. Non è un caso isolato. Dalle Nazioni Unite alla Corte penale, il diritto internazionale “è protagonista di una reale guerra che garantisce l’impunità dei pochi e privilegiati”.
Questa riflessione era stata pensata in giorni precedenti a quanto i giudici di Locri hanno pensato di introdurre nella storia del rapporto tra diritto e società: un (drammatico, non inatteso) materiale da poter essere utilizzato nei modi più diversi (caso scuola, politica, cultura, ruoli della magistratura, uno scandalo in più o esemplare) salvo che per fornire un giudizio su una persona e ancor più su una storia collettiva. La vicenda di Riace occuperà tanto spazio. Si può solo sperare che l’enormità di quanto successo porti a risposte complessive di un più, e non un meno, di democrazia.
I dati e i fatti di cronaca di cui parlano le righe seguenti non hanno la stessa probabilità di visibilità. Meglio elencarli per punti. Proprio a ridosso della presa del potere da parte dei Talebani in Afghanistan, la Corte penale internazionale ha aperto una procedura per crimini contro l’umanità commessi negli ultimi vent’anni nel Paese. L’ipotesi di accusa e le indagini preliminari erano state avviate e condotte con molta intensità grazie alla precedente procuratrice generale. Il nuovo procuratore generale ha confermato la decisione con una “variante”: gli accusati sono solo i Talebani. Per gli “altri” (Stati Uniti, militari e non, e tutto il corteo di protagonisti della storia recente del popolo afghano) non ci sono risorse sufficienti per approfondire e integrare le evidenze raccolte .
Si sta chiudendo l’Assemblea generale delle Nazioni Unite: due dei Paesi ufficialmente membri delle Nazioni Unite -Myanmar e Afghanistan- non hanno potuto prendere la parola per “accordi raggiunti in trattative informali dagli Stati membri del Consiglio di sicurezza” sul problema del riconoscimento dei rispettivi governi. Quanto sta succedendo ai popoli dei due Stati è ovviamente ben noto: il “genocidio sempre in corso” dei Rohingya è riconosciuto ormai da tutti, così come la repressione feroce della giunta contro l’opposizione che ha nominato un nuovo governo in un Paese di fatto in guerra civile. Almeno il popolo delle donne afghane è, da non importa quale organismo istituzionale, o fonte di informazione, guardato, citato ed evidenziato come indicatore dell’esistenza o meno di civiltà. Per questi popoli il diritto di visibilità e parola è stato abolito.
Il capitolo dei migranti, in tutto il mondo, continua ad “arricchirsi” di origine e tipologia di vittime: gli haitiani frustati alla frontiera del mite presidente degli Usa e i “popoli della rotta balcanica”, arricchiti dagli afghani (quanti, dove, fino a quando, verso l’Europa o il Pakistan?), continuano nella perfetta normalità a essere venduti al migliore offerente di merce di scambio (militare, politico o strategico). E non c’è corte, penale o dei diritti umani, che se ne faccia carico. Le “evidenze al di là di ogni ragionevole dubbio” che si tratti di crimini di sistema incompatibili con società (nazionali, regionali, globali) auto-dichiaratesi “civili” non trovano parlamenti che almeno li mettano all’ordine del giorno.
Non si può dimenticare la “cronaca” (nonostante la presa di posizione molto chiara anche all’interno di Israele, degli Stati Uniti, del Regno Unito sull’esistenza innegabile di una politica-realtà di un crimine come l’apartheid) della “normale” prosecuzione di una politica di repressione indiscriminata e globale del diritto all’esistenza e alla dignità della vita del popolo palestinese. Questo nel perfetto silenzio e nei ritardi senza tempo dei governi, delle Nazioni Unite e dell’Unione europea.
Locri è la perfetta “rappresentazione” di un capovolgimento globale del ruolo del diritto nel mondo. Divenuto ancor più acuto con la vicenda dei vaccini in rapporto al loro “sequestro” da parte dell’industria farmaceutica con la piena connivenza degli Stati, trasformati in soggetti attivi di un genocidio trasversale, atipico ma concretissimo. Con la terminologia divenuta corrente in America Latina nel caso del presidente Jair Bolsonaro in rapporto al popolo brasiliano, il diritto non è più sinonimo di garanzia delle persone e della democrazia, ma è protagonista di una reale guerra che garantisce l’impunità dei “pochi e privilegiati” rispetto ai “più e destinati al ruolo di vittime”. Il rito dei G20, coordinato quest’anno dall’Italia, è l’espressione concreta di un ordine che legalmente esclude i criteri minimi di legittimità che dovrebbero essere la chiave interpretativa gerarchicamente inviolabile del diritto internazionale e delle costituzioni. Nessuno spazio per i “G-Altri” che anche in Italia sono stati evocati cercando di rendere visibili i “G-ultimi”, 20 o più.
È toccato a una donna, capo di Stato di uno di questi “altri”, le Barbados, domandare, cambiando il suo discorso ufficiale davanti all’aula semi deserta delle Nazioni Unite, “Se la Carta delle Nazioni Unite fosse da votare oggi, chi dice che sarebbe approvata?”, avendo come documento di supporto, tra gli altri, il profilo dei diritti violati e impuniti a livello globale contenuto nel rapporto 2021 a cura del Tricontinental Institute for Social Research. Nei termini riassuntivi di una delle infinite analisi del destino del popolo simbolo degli ultimi, pubblicate dai maggiori giornali anche statunitensi, “Humans (#Rohingyas)vs Man-made States: incommensurables realities”: si accetta la legittimità di uno Stato riconosciuto come assassino.
E perfino una rivista leader nel campo sanitario (e certo non sbilanciata verso un’ipotetica sinistra) come Lancet fa il punto sul dove va il diritto alla salute (così tanto reclamizzato per un dopo pandemia e così bene clandestinizzato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza) che dovrebbe essere quello più “prossimo” al diritto alla vita, domandando in un dossier molto esteso e documentato: “A quando una decolonizzazione reale, nei singoli Paesi e nel mondo globale, di una cultura, ricerca, pratica della sanità che non sia soggetta al diritto non umano del mercato?”.
Non sono un giurista e posso avere una memoria solo approssimata della storia del diritto nel suo rapporto con la storia reale delle persone e dei popoli: posso solo augurare ai Mimmo Lucano, individuali e collettivi, di poter ancora incontrare -all’incrocio tra leggi, politiche, economia, civiltà- un diritto come quello di Calamandrei nel processo a Danilo Dolci: “Vi ho raccontato la storia: non ho nulla da aggiungere come difesa”.
Questo articolo è stato pubblicato il 2 ottobre su Altreconomia