Il potere in Cina. Un dossier della rivista «Gli Asini»

di GioGo /
6 Settembre 2021 /

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Nel numero 90-91 della rivista Gli Asini è stato pubblicato il dossier Il Potere in Cina, curato da GioGo e Ivan Franceschini. Per Inchiesta presentiamo di seguito i contenuti dei diversi articoli, molti dei quali possono essere letti sul sito della rivista, alcuni sono stati ripubblicati su Sinosfere.

Questo dossier tratta molti temi centrali dell’attuale situazione sociale, politica, economica e internazionale cinese, ma ne tralascia diversi altri. Pensiamo così di essere riusciti ad evitare un superficiale e modaiolo enciclopedismo, che spesso s’accompagna a un vetusto e interessato orientalismo. In Regime e Barbarie, GioGo introduce una riflessione sulla natura dello sviluppo della Cina riformata e in ascesa, scarnifica quel che resta del socialismo rilevando come a livello politico, economico e antropologico, siamo di fronte a una della “varietà del capitalismo globale”. L’ideologia essenzialista, recepita strumentalmente da una sparuta minoranza di amici da tastiera del PCC, orfani del grande soggetto che trasforma la storia e sempre pronti a incensare ogni regime immaginato come antimperialista, costruisce una Cina dove primeggia la collettività sull’individuo, lo stato sul mercato, dimenticando che qualsivoglia primato deriva, da qui il titolo del dossier, sempre da complesse relazioni di potere. Scrive GioGo: “Il socialismo del regime cinese contemporaneo […] si configura come un processo di aumento del tenore di vita nazionale tramite l’imborghesimento economico, politico, culturale, antropologico (individuale invece che collettivo) di un miliardo e mezzo di persone. A tale processo sono totalmente estranei concetti quale classe, lotta e odio di classe (sostituiti da armonia sociale shehui hexie e grande rinascita nazionale cinese zhonghua minzu weida fuxing), critica della proprietà privata, rifiuto della delega politica, ripudio della guerra, e in particolare la lotta contro la diseguaglianza, quest’ultima invece considerata uno sprone all’azione personale, per “diseguagliarsi” dalla massa e accedere a uno status elitario. Ne deriva che, se lo sviluppo avviene, anche potentemente, com’è qui il caso, in regime di sperequazione sociale, sarà diseguale anche l’arricchimento, donde per esempio il divario fra il reddito degli oltre 600 miliardari cinesi in dollari (quasi raddoppiati rispetto al 2020, secondi solo agli Stati Uniti e ai suoi 724 miliardari) e quello medio pro capite (intorno ai 12.000 dollari annui).” Le politiche di messa in gabbia del mercato (come si diceva nella Cina appena riformata) non cambiano affatto questo quadro, semmai sottolineano l’ulteriore accentramento del potere nella mani dell’élite dominante, cioè il PCC. L’identità del partito si colloca, continua GioGo, “ decisamente altrove rispetto all’idea e alla pratica di emancipazione e liberazione dell’umanità, nell’esercizio di una mediazione fra classi sfruttatrici e sfruttate fondata su una pax romana e garante di una crescita economica costante, cui demandare l’assorbimento degli scompensi sociali. Un socialismo che poggia su un combinato partitico, politico e militare in grado di reggere il paese con mano ferma, anche al prezzo di continue epurazioni interne degli elementi non allineati (anche altolocati, che siano dirigenti di partito o grandi capitalisti) e su un’egemonia culturale in grado di coinvolgere la popolazione grazie alla condivisione (sia pure diseguale) degli utili fra i cittadini. In particolare, questo quadro ospita volentieri e promuove l’informatizzazione della società, potente veicolo di estrazione e disciplinamento sociale, consumismo e controllo capillare delle attività, opinioni e comportamenti personali, a potenziamento del tradizionale braccio armato costituito da esercito e polizia”.

Ivan Franceschini in “Dopo il naufragio: alcune note sull’attivismo dei lavoratori in Cina oggi” offre un quadro della situazione problematica dei conflitti sul lavoro e la loro organizzazione nel contesto della nuove forme di sfruttamento che il modello economico cinese “upgraded” sta producendo. Sulla base di quindici anni di studi e ricerche sul campo, lo studioso rileva come il ruolo simbolico degli operai della Foxconn sia passato ai fattorini gestiti dalle piattaforme digitali e i colletti bianchi delle aziende dell’alta tecnologia. Il passaggio è cruciale, si tratta di una trasformazione infatti della composizione tecnica del lavoro che richiede una nuova capacità di analisi e organizzazione per comprendere quali possano essere le basi per una composizione politica del lavoro. Dopo aver illustrato l’esaurimento dell’esperienza delle ONG del lavoro e il “canto del cigno” dell’esperienza fuori tempo della lotta leninista alla Jasic del 2018 (sul versante delle ONG rimandiamo al numero 1 del 2021 dell’insostituibile Made in China Journal; sulla Jasic, rimandiamo a Leninisti in una fabbrica cinese ), Franceschini rileva come al momento le forme di resistenza siano assimilabili solo all’”attivismo dei deboli”: “in un contesto in cui i sindacati rimangono asserviti al Partito-Stato e ogni forma di organizzazione operaia indipendente viene percepita come una minaccia al potere costituito, si tratta di forme di resistenza ‘dei deboli’, prontamente represse non appena accennano ad evolvere in forme più strutturate. Ad esempio, negli ultimi anni Chen Guojiang, un giovane fattorino e attivista, aveva creato un embrione di organizzazione (l’‘Alleanza dei fattorini’) attiva attraverso vari canali online e offline nel fornire assistenza a colleghi – dalle consulenze legali a un posto dove dormire – e nel denunciare attraverso i social media le malefatte delle aziende nel settore. Nel marzo del 2021 è stato arrestato e poi incriminato formalmente per aver ‘iniziato litigi e creato problemi’, un crimine generico punibile fino a cinque anni di carcere. Nel caso di Pinduoduo, un dipendente che aveva criticato su internet le condizioni di lavoro nell’azienda è stato prontamente licenziato, per poi rivalersi pubblicando un video di denuncia che ha rapidamente ricevuto decine di milioni di visualizzazioni. Il recente arresto di Chen Guojiang dimostra come il Partito-Stato rimanga estremamente diffidente nei confronti di ogni tentativo di coalizzare i lavoratori cinesi intorno a un’agenda comune. È anche l’ennesima riprova delle immense difficoltà che ogni tentativo di superare la frammentazione della classe operaia cinese si trova ad affrontare. Ieri come oggi, gli scioperi in Cina non sono mai mancati, ma si è quasi sempre trattato di mobilitazioni limitate alla singola azienda e finalizzate ad avanzare soprattutto rivendicazioni economiche fondate su diritti già concessi per legge. L’emergere delle economie di piattaforma ha ulteriormente esacerbato questa frammentarietà. Se già un decennio fa aziende come la Foxconn facevano di tutto per prevenire l’emergere di forme di solidarietà tra i propri dipendenti, ad esempio allocando lavoratori provenienti da uno stesso luogo in dormitori diversi, alla fine della giornata i lavoratori si trovavano comunque a condividere uno spazio comune, il che facilitava gli scambi di esperienze. I lavoratori nelle economie di piattaforma non condividono neppure un luogo di lavoro fisico, costretti come sono a interagire individualmente attraverso l’impersonalità delle piattaforme. Se questa atomizzazione della classe operaia sta avendo luogo a livello globale, a complicare ulteriormente la situazione per i lavoratori cinesi sono la pervasività del controllo politico sui media nuovi e tradizionali e la completa assenza di organizzazioni sindacali indipendenti.” La conclusione finale, temporanea, dell’articolo non è ottimistica: “di fronte al crescente potere repressivo del Partito-Stato, unito alla capacità infinita del capitale di innovare le frontiere dello sfruttamento e alla crescente atomizzazione della classe operaia a causa dei mutamenti strutturali dell’economia, è lo spazio per la sperimentazione politica nel campo del lavoro e oltre che è venuto progressivamente meno. In un contesto simile, l’attivismo operaio non può che seguire i canali pratici e discorsivi imposti dal Partito-Stato, assumere le forme tipiche della resistenza dei deboli oppure concludersi in tragedia. Forse un giorno si scoprirà che le esperienze del decennio passato non sono state vane, che sono state il fertilizzante per una nuova generazione di attivisti, ma al momento le prospettive per il movimento dei lavoratori in Cina (come peraltro altrove) appaiono grame.”

Ancora sul tema del conflitto sociale, ma questa volta nell’ambito culturale, Gullotta e Lin presentano l’ultimo spettacolo della compagnia indipendente di teatro sociale Caotaiban (Grass Stage). Il restringimento degli spazi di espressione indipendenti è una realtà che nella società cinese attuale sta diventando quasi “naturale”, data per scontata. La compagnia Grass Stage è una delle poche eccezioni, sia perchè rappresenta uno spazio di analisi e discussione autonomo dallo Stato e dal mercato, sia perchè ha il merito e la capacità, ormai da quindici anni, di toccare gli argomenti centrali che investono le contraddizioni della società cinese. Su questa compagnia e il lavoro che ha svolto negli ultimi dieci anni, a breve per l’editore L’Incisiva uscirà un libro che ne raccoglie i testi e copioni. In “Teatro del contagio: potere e vita dopo la pandemia”, gli autori analizzano l’ultimo spettacolo di Caotaiban, andato in scena a Shanghai a Giugno, e poi a Canton a inizio Agosto. L’importanza di questo spettacolo consiste nella sfida portata all’ideologia ufficiale sul Covid-19 in Cina, una sfida non certo basata sulla discussione dell’efficacia o meno del vaccino, quanto invece sulle conseguenze che il Covid-19 e la sua gestione ha avuto e ha tuttora sul potere e sulla vita. E’ noto come la narrazione ufficiale governativa sia riuscita a rendere la pandemia come una guerra di popolo vinta dal Partito, con l’annientamento delle voci di dissenso. La pandemia è stata trasformata in un’occasione attraverso cui il potere ha incensato se stesso ed è penetrato ancora più in profondità nella vita delle persone, in modo capillare, o, se pensiamo alla pervasività del controllo digitale, virale. Lasciamo alla lettura completa dell’articolo la descrizione dello spettacolo Il decameron sull’isola Geli. Carne vulnerabile, guscio duro, la discussione collettiva che ha dato vita allo spettacolo che affronta “la dimensione storica mondiale non solo sulla pandemia, ma anche sulla segregazione, sulla divisione sociale, culturale e politica, la malattia, il rapporto normale-anormale”, e passiamo a un altro ambito di conflitto che riguarda la condizione femminile in Cina.

Lin Lili in “La violenza sulle donne nella Cina post-pandemia”, analizza l’aumento della violenza sulle donne in Cina durante la pandemia, ma collega questo aumento a un cambiamento nella società: da una parte un potere politico che poggia sempre più sul connubio nazionalismo e patriarcato (che si traduce con “sovranità”, con buona pace degli adulatori del PCC nostrani), dall’altra una diffusa e radicata espressione di dissenso e lotta del femminismo cinese che negli ultimi anni rappresenta uno degli ambiti che fanno da traino alle pratiche di emancipazione e liberazione. Proprio l’emancipazione e la liberazione, contraltare del potere in Cina, sono uno dei fili che legano questo dossier. Leggendo l’articolo di Lin, non sfuggirà come l’ideologia cinese corrente funzioni come un dispositivo utile a colpire la differenza in quanto tale, non solo quella di genere. La riduzione all’Uno (che ancora si traduce con “sovranità”) è una macchina di riduzione sociale e culturale, ci vanno di mezzo le minoranze e le autonomie, come vedremo con gli articoli di Darren Byler e Sharon Yam. “Ecco come “molti nazionalisti o “patrioti” stanno usando la rete per colpire le voci femministe, spostando il discorso dei diritti verso il ben più paranoico e strumentale discorso delle “forze straniere”. Poggiando sull’ideologia nazionalista e “patriottica” sostenuta dal Partito-stato, si va a proporre l’uguaglianza fra femminismo e ideologie anti-cinesi. In questo modo, viene a cadere ogni forma di legittimazione nei confronti delle idee e delle pratiche femministe cinesi. Come ha detto l’attivista femminista Lv Pin, siamo a un momento di svolta nella “guerra alle donne”, il femminismo si trova ora nel pantano della stigmatizzazione. Nella concezione di Xi, l’amor di patria è sempre collegato con la famiglia (jiaguo yiti: stato e famiglia sono una sola cosa). In questi ultimi anni, quando il discorso dominante nazionalista tira in ballo la patria, si porta dietro anche la famiglia. In questo quadro, il ruolo della donna patriottica è metter su famiglia, procreare e badare al lavoro di cura familiare. Non a caso il Quotidiano del Popolo nel 2018 ha pubblicato un articolo eloquente: “procreare è un fatto familiare così come è un fatto di Stato”. Le statistiche dell’ultimo censimento della popolazione rese note a maggio 2021 hanno evidenziato come nel 2020 sono nati solo 12 milioni di bambini, la cifra più bassa dal 1960 e che pone la Cina fra i paesi a più bassa natalità. Nello stesso mese, il governo ha varato la politica del terzo figlio, da molti considerata come tardiva e inefficace. Bassa natalità e invecchiamento portano dunque le donne a sobbarcarsi ulteriori fardelli, acutizzando così la contraddizione fra produzione e riproduzione sociale. Il restringimento degli spazi di parola per le donne, significa dover affrontare un ulteriore disciplinamento sociale. Se anche l’attivismo femminista inserito nel quadro della politica nazionale di uguaglianza di genere viene contrastato e il nazionalismo si lega sempre più alla violenza patriarcale, come potranno le donne continuare a esprimersi e lottare?”

Due articoli fanno il punto sulle conseguenze del potere sovrano, il primo sul Xinjiang, scritto da Darren Byler: Lottare contro l’internamento di massa degli Uiguri e contro la guerra continua. Il lavoro che sta facendo Byler è straordinario, a fronte della retorica patriottarda e menzognera che anche in Italia trova gregari utili a spargere narrazioni tossiche, unisce ricerca accademica e impegno, come già testimoniato da un altro suo articolo tradotto da Made in China Journal e pubblicato su sinosfere. Byler non si lascia irretire dalle posizioni essenzialiste dei modelli di civiltà, che siano quelli dei paesi liberi “occidentali” o “dispotici “orientali”, rileva infatti come il filo che lega la repressione nel Xinjiang da parte di Pechino vada ricercato nella guerra globale al terrore: “la logica del sistema fa da premessa alla retorica della guerra contro il “terrorismo“ mussulmano, prelevata dallo Stato cinese dall‘armamentario statunitense e alleato dopo l’11 settembre 2001. Molto di recente, nel 2017, le autorità del Xinjiang hanno ricevuto gli esperti dell‘antiterrorismo britannico nel quadro di uno scambio diplomatico chiamato “Contrasto, ispirato alle esperienze positive del Regno Unito, delle cause scatenanti dell’estremismo violento, minanti la crescita e la stabilità della regione cinese del Xinjiang”. Nel contesto cinese, il contrasto della violenza estremistica, quello che gli esperti britannici chiamano semplicemente “prevenzione”, s‘è concretata nella detenzione di centinaia di migliaia di mussulmani ritenuti “inaffidabili” nei campi e nelle prigioni, e nell’assegnazione degli altri adulti mussulmani a lavori lontani da casa, mentre nel contempo mezzo milione di bambini è stata alloggiata in scuole col dormitorio. Le logiche dell’antiterrorismo sono state usate per ignorare platealmente la questione dei diritti umani e civili e creare un’immensa colonia penale ad alta tecnologia.” Se la pressione del mondo su Pechino è importante perchè può limitare parzialmente l’allargamento di questo vasto sistema di colonia penale su base etnica, sappiamo come la questione sia strumentalizzata dai dominanti nelle relazioni di potere della geopolitica. Ma sappiamo anche che le società non coincidono con i governi, con buona pace dei sovranisti. L’impegno civile e politico all’estero non risolverà una questione che è la società cinese che deve affrontare. In questo senso nella seconda parte dell’articolo Byler scrive delle reazioni, minoritarie ma significative, che alcuni cinesi “han” hanno dimostrato una volta venuti a conoscenza della condizione nel Xinjiang oltre il muro ideologico messo in piedi dagli apparati di stato.

Sharon Yam nel suo “Patriottismo senza libertà. La protesta di Hong Kong nel 2019 e le sue conseguenze” prosegue sulle conseguenze del potere sovrano, incapace di concepire altro da sè, obbligato ad annullare le forme di vita che non riesce a governare. Rivolta e movimento sono le due componenti di quell’anno straordinario, da qui la forza e i limiti: “Oltre agli scontri con la polizia in centri commerciali, stazioni della metropolitana e sulle strade principali, gli abitanti di Hong Kong di differenti comunità hanno anche organizzato sit-in silenziosi, marce pacifiche e scioperi. Come Au Loong Yu nota nel suo libro Hong Kong in Revolt (Pluto Press, 2020), il movimento non solo ha inglobato manifestanti giovani in prima linea, ma ha anche ispirato un nuovo movimento sindacale, che ha lanciato con successo uno sciopero politico. Con l’allargamento del movimento democratico, la protesta del 2019 non si è limitata solo al disegno di legge sull’estradizione. Anzi, si è compattata attorno a cinque rivendicazioni centrali: “Ritirare l’extradition bill; smettere di etichettare i manifestanti come ‘rivoltosi’; ritirare le accuse contro i manifestanti; condurre un’inchiesta indipendente sul comportamento della polizia; introdurre un vero suffragio universale per il Consiglio legislativo e il Capo dell’Esecutivo”. Quando la brutalità della polizia contro i manifestanti è aumentata, alla fine del 2019 i manifestanti hanno cominciato ad articolare una sesta rivendicazione: “sciogliere la polizia”.” A seguire e fino a oggi, le azioni di Pechino sono entrate violentemente in tutti gli ambii della società per disciplinarla, normarla, silenziarla, terrorizzarla: “Alla fine del 2019 e all’inizio del 2020, lo slancio della protesta si è drammaticamente smorzato, prima per due assedi della polizia ai campus universitari e poi per la pandemia. Questo, tuttavia, non ha impedito a Pechino di implementare rapidamente la draconiana Legge sulla Sicurezza Nazionale (National Security Law, NSL), che estende il potere della polizia di Hong Kong e criminalizza le attività politiche e le azioni collettive definendole come eversione, terrorismo e collusione con forze straniere. Sotto la NSL, il popolare slogan di protesta “Liberate Hong Kong! Revolution of our time!” è stato reso illegale. Dalla sua implementazione, la legge è stata usata per perseguire attivisti pro-democrazia di alto profilo e politici e per scoraggiare la libertà di stampa e di assemblea. La NSL prevede lunghe condanne per chiunque la violi (da tre anni all’ergastolo), ma è volutamente vaga e ampia per creare timore. Alla fine del 2020 gli abitanti di Hong Kong hanno continuato a protestare in modi creativi, per aggirare la NSL, ma la repressione e la persecuzione politica si intensificano e alcuni sono diventati come instupiditi e rassegnati. Come notano i giornalisti del notiziario locale indipendente Stand News, nonostante le ulteriori violazioni e la soppressione della democrazia da parte di Pechino, la maggior parte degli abitanti di Hong Kong non provano più emozioni forti. Essi piuttosto borbottano con se stessi, “Amen. È comunque tutto nelle mani di Pechino”.” Le conclusioni dell’articolo non vogliono essere pessimiste, perchè dove c’è potere c’è resistenza: “Anche se i governi di Pechino e Hong Kong hanno efficacemente armato la sicurezza nazionale per schiacciare il dissenso e sopprimere le libertà politiche, la rivolta del 2019 non dovrebbe essere considerata un fallimento. Il movimento ha ispirato gli abitanti di Hong Kong di differenti gruppi sociali a riflettere e a lavorare verso un futuro politico più democratico. Le grandi manifestazioni e assemblee non sono più consentite sotto la NSL, ma molti attivisti hanno deciso di dedicarsi maggiormente all’organizzazione di comunità e di sindacati sui luoghi di lavoro, per ampliare lo spirito della resistenza. A livello internazionale, le tattiche di protesta usate dagli abitanti di Hong Kong nel 2019 hanno ispirato attivisti di base in paesi come la Tailandia, la Bielorussia e gli Stati Uniti. Gli abitanti di Hong Kong non sono soli nella lunga lotta contro l’autoritarismo e per affermare il diritto alla autodeterminazione.” Alla concezione del potere-resistenza foucaultiana dobbiamo forse aggiungere un consiglio machiavelliano, sul lungo periodo bisognerà vedere come il Principe conserverà questo nuovo principato acquisito (si ricorderà che la consegna di Hong Kong alla Cina da parte dell’Inghilterra nel ’97 non ha coinvolto la popolazione, un passaggio coloniale in piena regola), disforme e con poche “barbe e correspondenzie”. Si possono cambiare i libri di storia e imporre ai media la narrazione di una Hong Kong cinese, si può dunque ridurre il significante “Cina” al significato “PCC”, in tal modo ci sarà autoappagamento ideologico e affettivo per i cantori della via sovrana cinese, ma il conflitto resterà e, mutati i rapporti di forza, tornerà a rivoltare l’ordine esistente.

Proseguiamo con l’articolo di C. Sorace “Gratitudine. L’ideologia della sovranità in crisi”. Ci ricordiamo probabilmente il video con gli applausi e col “grazie Cina” che i romani esprimevano al passaggio di medici e aiuti sanitari cinesi nel Marzo 2020. Si tratta di gratitudine che i dominanti, in questo caso il PCC, anelano dal popolo, e che non hanno. Infatti il video era falso, come le centinaia di migliaia di notizie che ancora oggi circolano sul Covid-19, sul ruolo della Cina, degli USA, spesso anche quello dell’Italia… Qui non affrontiamo la questione delle notizie false e della geopolitica delle reciproche accuse, molto accesa durante la fine dell’era Trump ma che continua ancora intossicare la semiosfera. Sorace affronta la questione della gratitudine e la legge come espressione di sovranità in crisi: “Nonostante le differenze, tanto in Cina che negli Stati Uniti la gratitudine è l’ideologia della sovranità in crisi. Ci richiede di accomodare emotivamente il mondo disponibile, insinuando che domani potrebbe non esserci più. Non chiedere una vita migliore, sii riconoscente per ciò che hai: queste richieste isteriche rivelano l’insicurezza del potere sovrano.” Il potere, che sia quello in declino statunitense o quello in ascesa cinese, richiede la gratitudine, con piglio imperialista o con ottuso paternalismo. Appare chiaro come la concezione del popolo e della sua sovranità risultino completamente svuotate: “In entrambi i Paesi, tuttavia, il consenso è mediato attraverso la liturgia del potere piuttosto che realmente concesso. Negli Stati Uniti, studi hanno dimostrato come i comuni cittadini abbiano un impatto sulla formulazione delle politiche e i processi decisionali prossimo allo zero. In Cina, pur essendo occasionalmente reattivo di fronte all’opinione pubblica e alle proteste popolari, il Partito Comunista governa attraverso un’opaca segretezza. Ciò che nessuno vuole ammettere è che tanto i cittadini cinesi quanto quelli americani vivono sotto l’aura residua della promessa della sovranità popolare. Per citare lo scienziato politico e antropologo Partha Chatterjee, ‘il popolo, in altre parole, era sovrano, senza esercitare la sovranità popolare.’

Se il rifiuto di aderire alla richiesta di esser grati è il primo passo per limitare il potere togliendogli alibi e auto-assoluzioni, rischia di risultare solo un “gesto estetico” capace di fare “un taglio temporaneo nell’ideologia”, in mancanza di “una politica organizzata alle spalle”.

L’articolo di Simone Dossi, Il Mar cinese meridionale. Una partita non più (solo) regionale, ci porta dentro il conflitto geopolitico fra potenza egemone e potenza emergente nel Mar cinese meridionale: “A lungo circoscritte a una rilevanza meramente regionale, le controversie nel Mar cinese meridionale hanno però assunto nell’ultimo decennio una valenza che trascende l’Asia orientale. Proprio gli spazi marittimi della regione sono infatti divenuti teatro di crescente frizione fra gli interessi della potenza egemone e gli interessi della potenza in ascesa – interessi che, qui più che altrove, risultano in larga misura non conciliabili e pertanto suscettibili di alimentare un pericoloso gioco “a somma zero”. Dossi espone in modo chiaro e puntuale gli interessi e le posizioni in ballo delle due parti (laddove l’Europa ha “ambizioni velleitarie”), per Pechino “il Mar cinese meridionale presenta rilevanza strategica da molteplici punti di vista. In primo luogo, di qui transitano le vie di comunicazione marittima che connettono la Cina – e l’intera Asia orientale – al Medio Oriente e all’Europa, mercati cruciali per l’economia cinese, che da essi dipende rispettivamente per l’importazione di idrocarburi e per l’esportazione di prodotti finiti. L’ostruzione delle rotte che attraversano il Mar cinese meridionale arrecherebbe danni consistenti all’economia cinese, con rilevanti implicazioni per la sicurezza nazionale del paese. In secondo luogo, questi stessi spazi marittimi presentano rilevanza centrale nel quadro della strategia cinese di deterrenza nucleare. Grazie alla maggiore profondità dei fondali, il Mar cinese meridionale costituisce infatti il principale canale di accesso all’Oceano pacifico per i sottomarini nucleari lanciamissili balistici della Marina militare cinese, cui è demandato il compito di contrattaccare in rappresaglia (second strike) in caso di attacco nucleare sferrato contro la Cina da un paese nemico. In terzo luogo, e in linea più generale, il Mar cinese meridionale rappresenta uno spazio decisivo ai fini della tutela degli “interessi essenziali” (hexin liyi, 核心利益) della Cina localizzati nella propria “periferia” (zhoubian, 周边), a partire dall’interesse alla riunificazione di Taiwan al continente – interesse considerato non negoziabile in quanto indissolubilmente connesso alla legittimazione stessa del governo del Partito-Stato. In particolare, il Mar cinese meridionale riveste una funzione cruciale nel potenziamento delle capacità di interdizione su scala regionale, vale a dire quelle capacità che sono funzionali a impedire a potenziali avversari di accedere a spazi contigui al territorio nazionale cinese e acquisirne il controllo. Si tratta delle capacità che sono identificate negli Stati Uniti come capacità di anti-access/area denial (A2/AD) e che nella prospettiva di Pechino – osservava alcuni anni fa Luo Yuan, generale dell’Esercito popolare di liberazione e noto commentatore nazionalista di questioni strategiche – sono viceversa qualificabili come capacità “anti-invasione” (fan qinlüe, 反侵略).” Negli ultimi dieci anni “diverse delle isole sotto controllo cinese tanto nell’arcipelago delle Paracel (in particolare Woody Island) quanto in quello delle Spratly (in particolare Fiery Cross, Subi e Mischief Reef) ospitano oggi infrastrutture militari che promettono di potenziare significativamente le capacità di interdizione cinesi nella regione. Parallelamente al potenziamento di tali capacità, Pechino ha lavorato al consolidamento dell’effettività del proprio controllo sulle acque rivendicate: così, la Guardia costiera cinese ha ripetutamente ostacolato attività condotte da altri Stati costieri (in particolare Vietnam e Malaysia) per la rilevazione e lo sfruttamento delle risorse contenute negli spazi contesi, mentre a sostegno delle rivendicazioni cinesi sono state mobilitate anche imbarcazioni civili apparentemente inquadrate nella Milizia marittima (significativo, in particolare, il caso di Whitsun Reef nella primavera del 2021) e i poteri coercitivi della stessa Guardia costiera sono stati significativamente estesi con l’entrata in vigore della nuova Legge sulla Guardia costiera nel 2021.”. Quanto alla potenza egemone “interesse degli Stati Uniti è viceversa preservare la propria capacità di “accesso operativo” (operational access) agli spazi marittimi dell’Asia orientale. L’egemonia globale degli Stati Uniti si fonda in ultima istanza sulla capacità di proiettare potenza in ciascuno dei contesti regionali in cui si articola il sistema internazionale, capacità fondata a sua volta su ciò che Barry Posen identificava ormai quasi vent’anni fa come “dominio degli spazi comuni” (command of the commons), vale a dire il controllo americano sul tessuto connettivo del sistema globale – mari, aria, spazio extra-atmosferico (e potremmo oggi aggiungere lo spazio cibernetico). In questo senso, il potenziamento delle capacità di interdizione cinesi negli spazi marittimi dell’Asia orientale pone di per sé una sfida diretta a cruciali interessi americani nella regione e non solo. Se infatti Pechino fosse in grado di acquisire le capacità necessarie a “tenere fuori” dalla propria periferia marittima le forze americane, Washington non sarebbe più in grado di offrire ai propri alleati asiatici una credibile garanzia della loro sicurezza in caso di conflitto. I contraccolpi sull’architettura delle alleanze americane nella regione sarebbero formidabili, con il potenziale riallineamento in senso filo-cinese di rilevanti attori regionali e conseguenti ricadute sulla credibilità degli Stati Uniti ben oltre l’Asia orientale.”

Sempre sul Mar Cinese meridionale ma da una prospettiva differente, il dossier comprende il lungo e denso saggio “Galleggiamento”, dell’antropologa Aihwa Ong, conosciuta in Italia per il volume Neoliberalismo come eccezione. Cittadinanza e sovranità in mutazione che non dovrebbe mancare mai nei corsi della nostra sinologia.

La Ong è interessata a indagare gli sviluppi delle sovranità graduate nello spazio di galleggiamento degli stati-nazione: “Ho sostenuto che la frammentazione deliberata del territorio nazionale in zone ha generato effetti politici di “sovranità graduata”, nel momento in cui il potere sovrano viene distribuito in modo diseguale sul territorio. Avanzando oltre il territorio nazionale, questa pratica sovrana riflessiva che suddivide lo spazio statale in una serie di zone ha assunto sempre più una consistenza a livello volumetrico.[…] metto a confronto due diversi approcci adottati da due ambiziosi paesi asiatici, Singapore e Cina, che cercano di materializzare il galleggiamento sovrano attraverso la capacità di costruire infrastrutture, piuttosto che nell’uso della potenza militare, suddividendo gli oceani in zone che devono intendersi come elementi di una topologia sovrana. Due tipi di sfide accompagnano la spinta all’impresa marittima: la capacità tecnologica di controllare spazi e risorse acquatiche, e i limiti legali stabiliti dal regime marittimo internazionale. Questo saggio esplora come la manipolazione zonale delle interfacce terra-mare-aria possa ancorare il potere sovrano. Una piccola nazione delimitata dalla sua geografia insulare cresce e diventa uno stato marittimo, e una nazione continentale dispiega tecnologie di zonizzazione nello spazio extraterritoriale. La questione è se il galleggiamento dello stato possa essere sostenuto attraverso l’esercizio del puro potere materiale o se non sia anche necessario l’esercizio del soft power.”

L’articolo di Zhang Hong “Sta rallentando il passo la via della seta” con cui concludiamo questa presentazione, è centrale per comprendere la Cina globale. La studiosa spiega cosa si intende per BRI, o quella che noi ci ostiniamo a chiamare ancora poeticamente “Via della seta”, e come misurare e valutare questa iniziativa: “Bisognerebbe infatti considerare la BRI un motore per lo stabilimento a tutto campo di rapporti politici, istituzionali, sociali, industriali e finanziari con le nazioni del mondo; le infrastrutture sono senz’altro l’elemento più citato, ma non necessariamente quello più importante. Anche il livello dei prestiti bancari cinesi è una misura inadatta a misurare esaurientemente i progressi della BRI, nel caso degli esiti che richiedono risorse non solo finanziarie, ma anche diplomatiche, amministrative e teniche.” La studiosa analizza la BRI attraverso quattro livelli di una piramide, dove in cima troviamo quello diplomatico, poi “le iniziative di natura tecnologica nel commercio, gli investimenti, le infrastrutture finanziarie, la tassazione, le dogane, i criteri di omologazione ecc., che coinvolgono le amministrazioni statali centrali coinvolte e via via le controparti nei paesi dei partenariati nel lancio di nuove iniziative nei consessi internazionali, miranti a modificare il contesto istituzionale internazionale. “ Il terzo livello riguarda “la dimensione nazionale, dove le amministrazioni regionali e municipali conducono una diplomazia economica e culturale loro propria, legata alle condizioni locali.” Infine il quarto livello che “si rivolge all’aspetto della BRI più discusso fuori della Cina: i progetti infrastrutturali e d’investimento gestiti dalle aziende e dalle istituzioni finanziarie cinesi. Mentre i tre livelli precedenti consistono soprattutto in attività gestite dallo Stato, in questo quarto livello sembra siano all’opera prevalentemente operatori di mercato non statali. Si tratta di attività economiche che includono non solo quelle di ovvio valore strategico, come la realizzazione di progetti infrastrutturali chiave, ma anche attività commerciali “ordinarie” da parte di aziende di Stato e private, come per esempio le fabbriche di abiti. Ci si aspetta che molte delle attività statali ai primi tre livelli generino e facilitino le attività a questo livello, e che l’aumento di rapporti economici consolidino a loro volta le relazioni sociali e politiche. Di conseguenza, la BRI non può essere confinata esclusivamente alle attività a quest’ultimo livello: i progetti infrastrutturali e d’investimento devono essere visti come una parte del complessivo sforzo cinese di stringere legami.” Qual è la relazione fra questi quattro livelli? “i vari livelli d’attività sono connessi fra loro solo blandamente, da nozioni definite solo vagamente dalla BRI. Le attività diplomatiche al massimo livello tracciano il quadro di riferimento strategico della BRI, ma non impongono né formulano istruzioni specifiche agli altri livelli operativi. È dunque futile cercare di dare definizioni tassative di che cosa sia il tale progetto della BRI: ciascuno di essi può considerarsi al servizio del rafforzamento dei legami della BRI nel momento in cui gli operatori coinvolti escogitano quadri d’azione plausibili per esplicarne il potenziale. Le aziende sono fortemente incentivate a formulare progetti credibili, e molte possono cercare di fare pressione per la loro accettazione da parte del governo cinese e di quello della nazione ospitante, al fine di ottenere il sostegno diplomatico e finanziario di Stato. Dato che molte delle nazioni a cui mira la BRI sono ad alto rischio ambientale e le aziende cinsi non hanno tendenzialmente molta esperienza di questi mercati, il sostegno statale può rivelarsi determinante per la loro sopravvivenza nelle nuove intraprese.” L’ambiguità strategica della BRI ha accompagnato la sua fase di crescita quantitativa, ma è presente anche nell’attuale fase di ricerca di risultati qualitativi, ancor più difficilmente misurabili: La dirigenza politica cinese ha indicato il risultato migliore in quello che “forma una comunità di futuro (cin. lett. “destino”, N.d.T.) condiviso per l’umanità” (goujian renlei mingyun gongtongti), un linguaggio aulico non particolarmente adatto a fissare traguardi tangibili. Non è chiaro come la Cina possa stabilire quanto la BRI si avvicini a un traguardo del genere quando gli operatori sono più orientati a fare rapporto sui risultati conseguiti. Dal 2019, dopo aver concluso che le precedenti attività della BRI avevano raggiunto un livello soddisfacente di estensione strutturale onnicomprensiva, la dirigenza politica cinese ha anche ricalibrato l’obiettivo della BRI, che è diventato quello di uno “sviluppo d’alta qualità” (gao zhiliang fazhan).Di nuovo, il concetto di ‘sviluppo d’alta qualità’ è tenuto nel vago, fuorché nell’affermazione, rintracciabile del discorso del presidente Xi Jinping al Secondo Forum della BRI per la Cooperazione Internazionale, che ‘la BRI dev’essere aperta, verde e pulita, perseguire alti parametri e un approccio sostenibile focalizzato sui popoli”. Come nella fase precedente, vari operatori delle amministrazioni centrali e regionali e delle aziende fanno ora a gara per interpretare l’affermazione. Come ci si può aspettare, gli operatori tenderanno a evidenziare i successi più facili da quantificare e dimostrare, e metteranno da parte i giudizi qualitativi sulle complesse istanze soggiacenti. “

Speriamo che questo dossier possa stimolare il dibattito e la ricerca sulla Cina, a partire dalla sinologia. Il dibattito sulla sinologia su Sinosfere, a cui Inchiesta ha partecipato e su cui è intervenuto uno dei curatori di questo dossier, I. Franceschini, sembra non aver sfondato porte e aperto nuovi orizzonti. Pensando alle istituzioni che sorreggono la sinologia, GioGo riporta qui le parole della nostra amica Angela Pascucci, che per Gli Asini pubblicò il suo ultimo libro Potere e società in Cina, in una delle tantissime e preziose conversazioni avute, tra Cina e Roma: Ci vogliono scuole che facciano crescere persone libere ed evolute, nuclei affettivi generosi e realistici, società aperte e pronte alla fiducia altrettanto quanto al rischio e all’insicurezza, un ribaltamento della concezione della politica che bandisca il leaderismo.

Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta il 1 settembre 2021

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