Ad aver guadagnato da vent’anni di guerra e spargimento di sangue in Afghanistan sono state le imprese private di contractor militari e i trafficanti di eroina. Le stesse analogie con la «caduta di Saigon» non rendono l’idea del collasso statunitense di oggi.
Che cosa sta accadendo in Afghanistan? Poche settimane dopo che gli Stati uniti hanno cominciato a ritirare le truppe, i talebani hanno preso la capitale Kabul proclamando il loro nuovo governo. Il presidente sostenuto dagli Stati uniti ha abbandonato il paese. Nei circoli elitari hanno cominciato immediatamente a circolare preoccupanti analogie con la «caduta di Saigon» del 1975. Per cercare di ricostruire il senso di questi avvenimenti Daniel Bessner e Derek Davison — conduttori di American Prestige, un nuovo podcast di sinistra sulla politica estera statunitense — hanno dedicato all’Afghanistan una puntata del loro programma. Quella che segue è una versione rivista e condensata del loro dialogo.
DB: Perché l’Afghanistan è caduto?
DD: La risposta più breve è che l’esercito e il governo afghani erano un castello di carta. Lo sapevamo. Il funzionario addetto a supervisionare il processo di ricostruzione in Afghanistan lo diceva da anni. Due anni fa il Washington Post pubblicò gli «Afghanistan papers», una scandalosa tranche di documenti che sostanzialmente dicono che tutto quello che gli Stati uniti avevano affermato sulla competenza dell’esercito afgano e sull’andamento della guerra era falso. Il risultato è che i talebani, in un paio di settimane, si sono presi l’intero paese. Il presidente dell’Afghanistan ha abbandonato il paese, a quanto pare per evitare altri spargimenti di sangue (o almeno per evitare che fosse sparso il suo sangue). Adesso la situazione è quella di una sorta di limbo, perché non si è ancora insediato il nuovo governo, ma probabilmente sarà molto simile all’ultimo governo talebano. Secondo alcune indiscrezioni Maulavi Abdul Hakim, capo-negoziatore dei talebani, sarà nominato presidente del nuovo governo talebano.
Ad aumentare la situazione di caos c’è la situazione delle ambasciate occidentali. Molti paesi, inclusi gli Stati uniti, hanno evacuato le proprie ambasciate trasferendo il personale all’aeroporto di Kabul, con l’intenzione di far uscire in tutta fretta le persone dal paese. Non è chiaro quante persone verranno fatte uscire, aldilà dei cittadini statunitensi. Non è chiaro cosa ne sarà degli interpreti e di altri cittadini afgani che hanno collaborato con l’esercito statunitense e con le altre istituzioni nordamericane. Alcuni di loro dovevano essere fatti espatriare anni fa, ma ci stiamo sbrigando adesso a portarli fuori dal paese, quando l’Afghanistan è già caduto nelle mani dei talebani.
Per come la vedo io, la migliore politica estera sull’Afghanistan è una politica interna organizzata attorno al principio di accogliere i rifugiati. Il governo statunitense potrebbe sostanzialmente concedere a chiunque di entrare in qualsiasi momento negli Stati uniti con un visto di lavoro. Ma credo sia altamente improbabile che questo accada, se non in circostanze simboliche. Prima di continuare, vorrei sottolineare la velocità di questo collasso. Immagino che nei giorni e nelle settimane a venire si faranno molti confronti con il Vietnam. Ma il governo sudvietnamita ci mise un paio d’anni a cadere. Il collasso incredibilmente rapido dell’Afghanistan mette in evidenza quanto sia stato ridicolo il progetto di costruzione di una nazione in cui gli Stati uniti hanno preteso di imbarcarsi dopo l’invasione e l’occupazione di quel paese. Il meglio che si possa sperare è che questo sia l’ultimo chiodo nella bara dell’idea stessa di costruire a tavolino una nazione.
Qualche giorno fa il Segretario di Stato Anthony Blinken, parlando nei programmi tv del mattino, ha rifiutato con forza l’idea di un’analogia tra questa situazione e la caduta di Saigon. Sono d’accordo con lui, nel senso che stavolta è anche peggio della caduta di Saigon: è un vero e proprio autogol. Nel dicembre del 2001 i talebani offrirono la propria resa dalla città di Kandahar, l’ultima città nelle loro mani. Tutto quel che chiedevano era che quello che all’epoca era il loro leader, il Mullah Omar, fosse tenuto in arresto domiciliare e non venisse estradato in un qualche carcere come Abu Ghraib. L’amministrazione Bush rispose: «No, non siamo interessati». E si è infilata in questa situazione a passo di gambero per altri diciannove anni e mezzo. Niente di simile è accaduto in Vietnam, ossia che il Vietnam del Nord offrisse la resa e gli Stati uniti la rifiutassero per allargare il conflitto. Pertanto quel che sta accadendo in Afghanistan è peggio del Vietnam: è più imbarazzante, è più umiliante.
Sembra che le uniche persone ad aver «tratto benefici» dall’invasione statunitense dell’Afghanistan siano state le imprese private di contractor militari, i trafficanti di eroina e le persone associate nel corso degli anni alle svariate e potenti fazioni del governo sostenuto dagli Stati uniti. Ti sembra una considerazione corretta? O gli statunitensi hanno fatto «anche qualcosa di buono» in Afghanistan?
Di sicuro i contractor, le imprese di sicurezza private, ci hanno guadagnato. E anche il commercio di eroina ha tratto benefici dalla situazione dell’Afghanistan in questi ultimi vent’anni. Questi «signori della guerra» con gli Stati uniti si sono arricchiti e hanno accumulato delle grandi fortune, ma ormai hanno perso tutto. Qualche giorno fa circolavano video di talebani che depredavano il palazzo, tremendamente pacchiano, di Abdul Rashid Dostum, l’ex vice presidente. Dostum era anche il leader di una milizia e stava organizzando la difesa di Mazar-i-Sharif, che è stata poi una delle prime grandi città a cadere nelle mani dei talebani. Viveva in un palazzo opulento ai limiti del ridicolo, ma adesso ha perso tutto e si trova in esilio (Dostum in realtà dovrebbe trovarsi sotto processo a L’Aia, perché è un criminale di guerra).
Anche il presidente Ashraf Ghani probabilmente se la passerà bene in esilio, dopo aver malgovernato l’Afghanistan, e saranno le persone che lui ha abbandonato a pagare il prezzo più alto. Probabilmente riceverà onori, andrà ai cocktail party, darà qualche conferenza, otterrà qualche sinecura. Se la caverà bene, quindi anche lui è uno di quelli che da questi ultimi anni hanno tratto beneficio. Ma dovrei faticare per trovare qualcun altro che ci abbia guadagnato.
C’è qualcosa in particolare che caratterizza il nuovo governo talebano?
I talebani hanno fatto un mucchio di promesse, del tipo: «Non siamo i vecchi talebani, non governeremo come quelli di prima. Non vogliamo reprimere le donne, non maltratteremo i gruppi etnici minoritari». Ma negli anni Novanta governavano in maniera molto repressiva ed è molto probabile che questo succederà ancora. Sui talebani bisogna fare alcune considerazioni di tipo diplomatico. Devono fare attenzione a come tratteranno gli Hazara, un consistente gruppo minoritario di fede sciita, perché finirebbero per guadagnarsi l’ostilità dell’Iran. Alcune scelte possono pesare in maniera diversa rispetto agli anni Novanta, stavolta possono far funzionare le cose in maniera diversa. Ma è ancora troppo presto per dirlo.
Quando si pensa a una rivoluzione islamica, si pensa necessariamente all’Iran. E dopo quella rivoluzione, c’è stata una forte emigrazione di persone che hanno lasciato il paese. Ci sono probabilità di vedere qualcosa di simile in Afghanistan?
In un certo modo l’abbiamo già visto. C’è stata un’ondata di rifugiati che si sono diretti perlopiù verso l’Iran e la Turchia. Credo che questi flussi continueranno nei prossimi tempi. E allo stesso modo quello che continuerà sarà il fatto che gli Stati uniti, il Regno Unito e i governi dei paesi occidentali, che sostengono di avere così a cuore il popolo afgano, terranno questi rifugiati a distanza, cercando di obbligarli a vivere in posti come la Turchia o in altri paesi di quella regione, in situazioni che si trovano sotto gli standard di una vita decente. Adesso i talebani controllano gran parte dei confini del paese, pertanto per le persone sarà difficile uscire, ma penso che in futuro questi flussi continueranno.
Cosa pensi che faranno gli Stati uniti nei giorni e nelle settimane a venire? E in secondo luogo, cosa bisognerebbe davvero fare invece?
Quel che si farà sarà ripetere questo discorso: «Oh, le donne afgane, la società civile, speriamo che i talebani non facciano del male a queste persone. Pretendiamo che i talebani rispettino la volontà del popolo afghano». Assieme ad altre banalità su democrazia, libertà e giustizia. Probabilmente gli Stati uniti minacceranno eventuali sanzioni e cercheranno forse di organizzare un boicottaggio internazionale per non riconoscere il nuovo governo. Ma ci sono almeno due grandi potenze in quell’area, la Cina e la Russia, che saranno disposte a intrattenere delle relazioni con questo nuovo governo, perché altrimenti potrebbero avere difficoltà per questioni di sicurezza interna. Pertanto non so se questo eventuale boicottaggio possa funzionare.
Quello che bisognerebbe fare è quello che dicevi prima. Dovremmo accogliere i rifugiati. Questo dovrebbe stare al centro delle preoccupazioni del governo statunitense. Chiunque abbia lavorato in qualsiasi ruolo da risultare esposto a minacce violente, deve essere portato fuori da quel paese: portateli negli Stati uniti e smettetela di trastullarvi con giochi furbetti di diritto attorno alle questioni dei visti. Dovremmo accogliere i rifugiati da ogni parte di quell’area, non solo dall’Afghanistan. Ne abbiamo la possibilità, solo che non vogliamo farlo. Ma sicuramente in Afghanistan, in un conflitto, in una situazione che abbiamo provocato noi, dovremmo assumerci la responsabilità di accogliere quelle persone che cercano asilo.
Vorrei concludere su questo punto. Ho visto che qualcuno ha postato su Twitter un commento sostenendo che gli Stati uniti dovrebbero rispettare la regola dei negozi di porcellana – «se rompi qualcosa, sei obbligato a comprarla» – un principio che è stato usato per giustificare all’infinito la presenza degli Stati uniti in Afghanistan. Cosa ne pensi di questa tesi?
Non penso che quel principio si applichi a una situazione in cui siamo noi quelli che non hanno mai smesso di rompere le cose. Voglio dire: siamo arrivati in Afghanistan e l’abbiamo fatto a pezzi. Poi siamo rimasti lì vent’anni rompendo ogni giorno qualcosa, ogni giorno un pezzetto in più, ogni singolo giorno di ogni anno. Non abbiamo mai permesso a quei paesi di rimettere assieme tutti i pezzi, nel loro posto. Ci siamo limitati a stare lì, per assicurarci che i pezzi non venissero rimessi assieme, che non fossero riparati. Ecco cosa è successo davvero in Afghanistan.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 24 agosto 2021