Il «Giorno del ricordo» delle vittime delle foibe è stato ideato con finalità nazionaliste e revisioniste, preferendo l’uso politico spregiudicato di quegli eventi all’analisi storica dei fatti
Il 10 febbraio è l’anniversario del Trattato di pace che, nel 1947, sancì la fine della Seconda guerra mondiale, ma dal 2004 nel nostro paese in questa giornata si celebra «il giorno del ricordo» delle vittime delle foibe nel confine orientale. Eric Gobetti ha da poco dato alle stampe per Laterza il volume E allora le foibe?,che fin dal titolo fa il versoalla retorica che in questi anni si è creata intorno a un fatto storico che, invece di essere trattato e studiato come tale, viene utilizzato con finalità nazionaliste e revisioniste. In quest’intervista per Jacobin Italia Gobetti ci aiuta a evidenziare gli errori e le mistificazioni che hanno costruito un discorso pubblico «ufficiale» molto lontano dalla realtà dei fatti.
Eric, dopo L’occupazione allegra (2007), Alleati del nemico (2013) e La Resistenza dimenticata (2018), questo nuovo E allora le foibe? è il tuo quarto volume dedicato all’invasione nazifascista della Jugoslavia e alle sue conseguenze. Senza contare documentari, trasmissioni televisive per Rai Storia, e altro ancora. Cosa ti ha indotto a dedicare a questo tema una così ampia parte della tua attività di studioso?
Fin da ragazzino ero affascinato dalla Seconda guerra mondiale: al mio sguardo infantile sembrava infatti uno dei pochi episodi storici in cui i «cattivi» erano stati sconfitti, irrimediabilmente. L’interesse per la Jugoslavia è invece arrivato durante le guerre degli anni Novanta, quando facevo l’università ed ero stato molto colpito da quegli eventi all’apparenza incomprensibili. Ho deciso così di provare a studiarli, per cercare di capirli. Incrociando i due interessi sono arrivato a occuparmi soprattutto (ma non solo) di Seconda guerra mondiale in Jugoslavia. Ecco, studiare la storia jugoslava mi ha insegnato a guardare agli eventi storici da molteplici punti di vista. La complessità e l’intreccio di diversi fattori sono entrati a far parte del mio bagaglio culturale e professionale, e li considero essenziali per osservare qualunque fenomeno storico.
In E allora le foibe? osservi, con molto allarme, come in Italia «la narrazione politico-mediatica dominante» appaia incardinata sui binari posti a suo tempo dalla propaganda neofascista, vale a dire: le foibe come «genocidio» o «pulizia etnica»; l’esagerazione grottesca del numero delle vittime; la mancata assunzione di responsabilità per i crimini del nazionalismo italiano prima, e del fascismo poi, nell’area balcanica, ecc. Constati, inoltre, come anche molte celebrazioni ufficiali del «Giorno del ricordo» seguano la stessa falsariga. Da storico, cosa proponi per contrastare questa egemonia ormai consolidata del discorso neofascista sulle foibe?
Temo che la stessa giornata commemorativa sia stata ideata con finalità nazionaliste e parzialmente revisioniste, una «riconciliazione» nazionale tra ex fascisti ed ex comunisti sulla base di un presunto nemico storico comune: il comunismo jugoslavo. C’è però, nel testo della legge istitutiva del «Giorno del Ricordo», un riferimento alla «complessa vicenda del confine orientale». Su questo elemento bisogna lavorare, per riaffermare tre punti che giudico essenziali: non si può rappresentare nessun fenomeno storico in maniera schematica, ma è necessario contestualizzare, analizzare, comprendere la complessità degli eventi; non si possono ignorare le vittime jugoslave della stessa fase storica (dei crimini fascisti e nazisti) solo perché non italiane, a meno di voler affermare che non hanno la stessa dignità di esseri umani; politicamente non si possono presentare i crimini comunisti senza nominare quelli fascisti, a meno che non si voglia affermare la superiorità ideale del modello fascista, in contrasto quindi con gli stessi valori fondanti della nostra Repubblica.
Sempre a proposito delle foibe, tu noti che l’equiparazione «con l’Olocausto è un topos che si sta affermando sempre più spesso nell’uso politico di questa vicenda. Secondo tale costruzione simbolica, le foibe sarebbero ‘la nostra Shoah’ e chi ne sminuisce la portata viene di conseguenza accusato di ‘negazionismo’». Puoi riassumere la tua argomentazione contro questo paragone, del tutto insensato, tra Shoah e foibe?
Innanzitutto c’è una questione di numeri, il che spiega questa ossessione per raddoppiare o triplicare le cifre: da una parte c’è un intero popolo, composto da milioni di individui, che scompare, dall’altra 3.000-5.000 morti su una popolazione di qualche centinaia di migliaia di persone (dipende da dove poniamo i confini del territorio interessato). Ma da un punto di vista storico l’elemento dirimente è dato dagli intenti di chi opera le stragi: da una parte è indubbia la volontà di sterminare l’intera popolazione ebraica d’Europa; dall’altra il presunto obiettivo di pulizia etnica non è confermato da nessuna fonte certa, mentre innumerevoli documenti parlano chiaramente di repressione politica. Inoltre c’è un dato che mi pare un po’ la prova del nove: nel 1945, alla fine del conflitto, ci sono decine di migliaia di italiani (forse 20.000 in quel momento) che combattono nelle file dell’esercito di liberazione jugoslavo. Se l’obiettivo era sterminare la popolazione italiana, cosa ci facevano lì?
Torniamo all’accusa di «negazionismo delle foibe», che è stata mossa ingiustamente contro di te e contro altri studiosi. Tu osservi che, ormai, chi non accetta la versione propagandistica corrente sulle foibe, e vuole invece fare ricerca attenendosi ai fatti e al metodo storico, rischia di venire etichettato come «negazionista delle foibe». In realtà però questa stessa categoria è di origine accademica: fu coniata nel 2003 da Raoul Pupo e Roberto Spazzali per colpire in particolare una ricercatrice, Claudia Cernigoi, che era stata fra le prime persone a denunciare, negli anni Novanta, la mistificazione oggi dominante sull’argomento. In seguito, nella rappresentazione politico-mediatica, l’accusa infamante di «negazionista delle foibe» si è estesa a macchia d’olio, fino a ricomprendere gli stessi storici che l’avevano inizialmente formulata. Come valuti questa involuzione: per te siamo di fronte a una categoria storiografica inizialmente esatta il cui uso è stato pervertito dai media, oppure quello stesso concetto era scientificamente difettoso già all’origine?
Non mi pare che né Claudia Cernigoi né altri studiosi abbiano mai negato gli avvenimenti drammatici di cui parliamo. Semplicemente tali avvenimenti sono stati interpretati da diversi punti di vista, come è normale che sia, con una prospettiva più «nazionale» da una parte e più «antifascista» dall’altra. Ma tutto ciò rientra nel normale dibattito storiografico, che deve includere naturalmente diversi punti di vista, diverse modalità interpretative, sempre a partire dalle fonti e dai risultati delle ricerche precedenti. Al di là delle diatribe passate, oggi mi pare chiaro come la distanza fra le tesi espresse ad esempio nel noto Vademecum edito dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia (in gran parte frutto dei lavori proprio di Spazzali e Pupo) e quello delle ricerche di Claudia Cernigoi o altri studiosi, non sia così grande, se posta in relazione alla colossale mistificazione messa in campo invece dai principali mass-media. Tanto è vero che oggi anche Pupo e colleghi (e di fatto tutti gli storici che si occupano onestamente del tema) sono accusati di negazionismo. Ritengo dunque che sia davvero urgente e necessario un riavvicinamento fra studiosi che in passato sono stati in disaccordo, con l’intento di riportare il dibattito pubblico su un piano di realtà. Esistono infatti alcuni punti fermi sui quali tutti gli studiosi concordano, senza ombra di dubbio. Faccio solo alcuni esempi: la realtà multiculturale di queste regioni fino alla fine della Prima guerra mondiale; il regime oppressivo fascista e i crimini di guerra commessi dall’esercito italiano in quei territori; l’ordine di grandezza delle vittime delle violenze partigiane (3.000-5.000); la labile correlazione fra quelle violenze e l’esodo, strettamente legato invece alla modifica dei confini dopo la sconfitta in guerra. Ecco, io credo che sia il momento di unire le forze degli studiosi, di qualunque orientamento, per mettere in discussione la «versione ufficiale» che si sta imponendo, che oltre a essere sbagliata è anche pericolosamente venata di elementi nazionalisti e revisionisti. È necessario che tutti ammettano, per rispetto verso la nostra stessa professione, che il discorso pubblico è in gran parte sbagliato e va rivisto. Dopodiché possiamo continuare ad avanzare interpretazioni differenti, ma sempre nell’alveo della realtà, della serietà della ricerca e del rispetto reciproco. In sostanza è ora di dire, insieme, che non siamo negazionisti noi storici (o qualcuno fra noi) ma sono i mass-media e i politici che si ostinano a «negare» il valore della ricerca storica, preferendo un uso politico spregiudicato di quelle tragedie.
In una delle pagine finali del tuo volume, riferendoti allo stato attuale della storiografia sulle foibe, tracci un’importante distinzione scrivendo che, da una parte, «ci sono studiosi mainstream, solitamente accademici, che hanno spesso mostrato un approccio critico verso la Resistenza jugoslava e l’ideologia comunista che l’animava, privilegiando il punto di vista delle vittime. Dall’altra parte troviamo una generazione di studiosi più giovani, con un approccio dichiaratamente antifascista e di difesa della Resistenza e dei suoi valori, che pongono maggiore attenzione al contesto complessivo di violenza nel quale il fenomeno avviene». Da chi è composta (oltre te naturalmente) questa nouvelle vague di giovani studiosi che difendono l’antifascismo e i valori della Resistenza? Potresti farci qualche nome?
Fare i nomi significherebbe sicuramente dimenticare qualcuno, e non vorrei mai. Va detto che alcuni di questi studiosi sono all’opera da ormai molti anni e che molti altri operano in diversi campi di studio storico, non solamente in relazione alle vicende dell’Alto Adriatico. La vera novità forse sta nel coraggio di spendersi, di uscire dall’accademia, di portare la ricerca al grande pubblico e provare a influire sulla società intera: quello che dovrebbe essere il ruolo dell’intellettuale in qualunque società democratica moderna. Sicuramente la collana Fact Checking di Laterza, all’interno della quale è uscito anche il mio libro, va in questa direzione. D’altronde l’offensiva memoriale neofascista sembra aver reso questa storia «d’attualità». È evidente infatti che l’intento sia sdoganare il passato fascista per rendere accettabile agli italiani quello stesso modello nazionalista/fascista di esclusione dell’altro, ghettizzazione del diverso, espulsione o eliminazione del più debole che vediamo di nuovo in atto oggi, nella nostra attualità di tutti i giorni. Dunque, come sempre, fare storia significa anche fare politica; difendere i valori della Resistenza vuol dire anche difendere i diritti e la dignità umana di chi oggi ne viene sempre più spesso privato.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 10 febbraio 2021