Dalla Befana a oggi l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale si è concentrata, oltre che sul virus, sugli impressionanti avvenimenti postelettorali degli States. Qualcuno potrebbe pensare che, smaltiti i sospiri di sollievo per la sconfitta di Trump, l’unica “guerra” su cui valga la pena tenere accesi i riflettori sia quella contro il Covid. Tra gli effetti collaterali della pandemia non c’è quello di sospendere i conflitti bellici; che infatti, anche nel 2020, non hanno mai smesso di sterminare giovani, adulti e anziani, in varie parti del mondo. Ora che, grazie alla maggioranza degli elettori americani, la valigetta nucleare è in mano più rassicuranti, l’emergenza sanitaria (pesantemente aggravata dalle decisioni irrazionali dello sconfitto e del partito repubblicano) è necessariamente il principale fronte del soldato Biden. A prescindere dalla nostra distrazione, la politica estera continuerà ad esistere; le guerre in corso in giro per il mondo continueranno a far salire la curva infinita dei morti ammazzati. Una curva il cui abbattimento purtroppo non è mai stato prioritario, né per i governi occidentali né per quelli “orientali”. Un conteggio che nessun telegiornale si degna di aggiornare quotidianamente, insieme a quello delle vittime del virus.
Nel ventennio che ci separa dall’11 settembre 2001 sono cadute tutte le maschere via via indossate dai fallimentari esportatori di democrazia. Si tratta di capire se il nuovo comandante in capo degli Usa – ma anche della Nato – si limiterà a rispolverare la non memorabile politica estera di Obama o se cambiare davvero. Riaprire il dialogo con l’Iran e bloccare l’incontinente espansionismo di Israele è urgente oltre che doveroso, ma non basta. Biden e i suoi alleati di maggior peso (Regno Unito, Francia e Germania) sapranno abbandonare una volta per tutte la fallimentare e ipocrita strategia inaugurata da Bush jr e Tony Blair con l’invasione di Afghanistan e Iraq, proseguita da Obama e Hollande (per esempio in Siria, finanziando ogni genere di tagliagole pur di abbattere il dittatore Assad), infine aggravata dall’accoppiata Trump-Netanyahu? Lo scorso 19 gennaio, vigilia del giuramento di Biden, è stata lanciata una petizione che chiede l’immediato annullamento di una tra le più sciagurate eredità che Trump ci ha lasciato, prima di togliere il disturbo: l’inserimento nella lista delle organizzazioni terroristiche degli Houthi, i ribelli sciiti che dal 2015 controllano il nord dello Yemen. Iniziativa che rischia di precipitare quel paese, già al collasso, in “una catastrofe umanitaria di portata inimmaginabile”.
Fare meglio di Trump, anche in politica estera, sarà facile. Ma non basta. La domanda giusta è: Biden saprà e potrà fare meglio di Obama? Ritorno al passato o ritorno al futuro? Sebbene i primissimi atti firmati dal nuovo Presidente, che hanno cancellato alcune tra le decisioni più disgraziate del suo predecessore, siano incoraggianti, bisogna ammettere che rileggere le pagine di politica estera scritte durante gli otto anni del governo Obama-Biden non è tranquillizzante. «Il mondo globalizzato sta facendo i conti con l’inasprimento della povertà e dell’ineguaglianza senza che le transizioni verso la democrazia qualcuno le abbia mai viste. Il mondo globalizzato sta anche facendo i conti con guerre che esplodono qua e là e che non finiscono mai. La ragione dell’eternizzazione bellica sta nell’opportunità di moltiplicare i dispositivi di sicurezza rendendoli sempre più sofisticati e smerciandoli a prezzi sempre più alti. Il terrorismo e la mercificazione della violenza sono diventati economia politica, un modo di produzione. Se Al-Qaeda o l’Isil non fossero esistiti avrebbero dovuto inventarli (come è stato appunto fatto) perché la lotta al terrorismo genera milioni di posti di lavoro nelle industrie degli armamenti, della sicurezza, e delle comunicazioni. L’amministrazione Obama ha venduto più armi [60 miliardi di dollari solo all’Arabia Saudita] di qualsiasi altra amministrazione americana dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, poi è arrivato Trump a battere nuovi primati* [oltre 110 miliardi, il doppio di Obama]». Armi che da sei anni vengono usate, tra l’altro, contro la popolazione del confinante Yemen, vittima sacrificale degli equilibri e degli appetiti globali. Chi è senza peccato scagli la prima bomba: nel suo piccolo anche l’Italia non ha mai smesso di vendere armi ai ricchissimi finanziatori del terrorismo islamista: solo nei primi sei mesi del 2020, l’Italia ha incassato 5,3 milioni di euro dall’Arabia Saudita e 11 milioni dagli Emirati Arabi Uniti. Nel suo ultimo giorno alla White House, lo sconfitto rancoroso ha decretato che gli Houthi vanno considerati terroristi. Chi se ne frega se questo impedirà agli aiuti umanitari di raggiungere la popolazione, l’importante è mettere ostacoli sul cammino di chi intende riaprire il dialogo, interrotto quattro anni fa, con il nemico storico degli Usa, di Israele e dei sultani sunniti: l’Iran. Pare che Biden abbia intenzione di porre rimedio anche a questa follia. Speriamo bene. Per dare un’idea di cosa può accadere in un giorno qualunque nello Yemen contemporaneo, il 9 agosto 2018 un bombardamento della coalizione Arabia-Nato-Israele centrò in pieno uno scuolabus: delle 51 vittime, 40 avevano meno di 15 anni. Una settimana prima altre 60 persone erano morte durante il bombardamento dell’ospedale di Hodeidah. Questa operazione militare anti-Houthi era stata battezzata “Golden Victory”: vittoria militare mai raggiunta e doratura decisamente meno ammaliante del microfono usata da Lady Gaga per cantare l’inno nazionale.
Ammazzare donne e bambini? Cose che nel mondo dei “grandi” si fanno ma non si devono vedere: farebbero perdere voti. «L’idea di rimodellare un Medio Oriente allargato fino all’Asia Centrale entrò nei meccanismi mentali dei neo-conservatori americani a cavallo tra la fine del secondo millennio e l’inizio del terzo, e il Presidente Bush jr provò a metterla in pratica. Per la verità ad essere soggiogato dall’appetibilità della balcanizzazione fu il suo predecessore Bill Clinton, che presiedette alla dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, ricavandone sette staterelli. Quindi arrivò Bush jr, convinto che gli fosse stato affidato l’incarico di responsabile della cartografia politica universale (incarico poi trasmesso al suo successore Obama). La tecnica per realizzare l’operazione fu detta della “instabilità costruttiva” o del “caos creativo” e già nella definizione tradiva la faciloneria e il pressapochismo dei suoi ideatori. Consisteva in una considerazione semplicistica. L’Iraq per esempio. Abbattendone il dittatore tutti gli altri dittatori sarebbero caduti per effetto domino e poi si potevano ridisegnare i confini di nuovi Stati su base etnica e perfino religiosa. Ne era più che convinto, tra gli altri, Joseph Biden detto Joe, vice del Presidente Obama, ostinato nell’immaginare l’Iraq suddiviso in tre regioni autonome, una per gli sciiti, un’altra per i sunniti, la terza per i curdi»*.
Cambiare rotta rispetto alla politica estera americana degli ultimi 30 anni è possibile? E l’Europa quante politiche estere continuerà ad avere? La pace resterà un orizzonte ideale o diverrà un obiettivo politico strategico?
*[cit. Gianni Flamini da “L’ultima guerra di Trump”, Castelvecchi 2019]