Le soluzioni per il clima proposte dall’Onu in questi anni si limitano a mettere un prezzo alle emissioni, aumentando i costi per chi inquina senza cambiare il modello produttivo. Il risultato è stato mercificare gli elementi alla base della vita
Mentre faticosamente la battaglia ecologista tenta di riprendere quota dopo il lockdown, i leader globali guadagnano tempo, rinviando misure urgenti per la transizione e appuntamenti chiave come la conferenza delle parti Onu sui cambiamenti climatici (Cop). Non che finora questi vertici abbiano prodotto politiche apprezzabili o efficaci, ma di certo rappresentano un momento dell’anno in cui si misura la spinta propulsiva della società civile su questi temi e la capacità di risposta delle istituzioni.
La prossima Cop, la numero 26, si terrà nel novembre 2021 e rappresenta un passaggio cruciale per il futuro globale delle politiche per il clima. All’ordine del giorno ci saranno le regole che permetteranno all’accordo di Parigi e ai suoi meccanismi di cominciare a funzionare, ben sei anni dopo la sua approvazione.
Il forte ritardo accumulato in questi anni e la debolezza dell’accordo rendono poco probabile un suo contributo alla radicale trasformazione che sarebbe necessaria per garantire un futuro degno a milioni di persone, comunità e altre forme del vivente. Molto spesso questo ritardo è stato imputato alla poca volontà da parte dei governi di innescare e sostenere transizioni dell’economia sufficientemente drastiche, ma c’è qualcosa di più profondo nei fallimenti continui delle politiche per il clima, che emerge non tanto analizzando ciò che non è stato fatto per risolvere la crisi, quanto piuttosto ciò che è stato fatto con questo obiettivo dichiarato.
A parte gli impegni non vincolanti, i sussidi per passare da un combustibile fossile all’altro e i dollari spesi in ricerca e sviluppo di nuove tecnologie geoingegneristiche, oggi gli unici veri meccanismi di gestione delle esternalità negative create dal sistema economico sono i mercati del carbonio. Si tratta di spazi virtuali che consentono con diversi strumenti lo scambio di emissioni fra industrie o governi. Un gioco che – quando va bene – è a somma zero, ma nella gran parte dei casi si è rivelato dannoso per il clima, gli ecosistemi e le comunità.
Veri e propri mercati del carbonio sono in vigore nell’Unione europea e in una ventina di altri paesi o regioni del mondo. A essi si accostano una pletora di progetti locali promossi dalle Nazioni unite con il Protocollo di Kyoto e con lo schema Redd+, i programmi ideati nei primi anni Duemila per ridurre il disboscamento. Tentativi che non rappresentano soltanto due decenni persi nella transizione ecologica, ma anche la base per bruciarci i prossimi tre.
La strada imboccata dall’accordo di Parigi, infatti, è ancora una volta quella della finanziarizzazione dei cicli ecologici, della privatizzazione, mercificazione e scambio degli elementi alla base della vita planetaria come l’aria, l’acqua e le loro componenti chimiche. La proposta sul tavolo è sempre la stessa, condensata nell’articolo 6: lasciare che siano la ragione economica e il mercato a farsi interpreti della crisi e protagonisti della sua soluzione. Una soluzione che però non coinciderà con l’eliminazione delle cause del problema, permetterà invece la trasformazione della catastrofe climatica in ulteriore opportunità di profitto per alcuni attori, con il conseguente abbandono del resto del mondo a un’esistenza sempre più precaria.
La finanziarizzazione fiorisce laddove vengono raggiunti dei limiti fisici all’espansione del capitale. La crisi ecologica, con l’esaurimento progressivo di risorse materiali, spinge la frontiera dell’accumulazione verso nuovi oggetti e processi immateriali per creare nuove condizioni di estrazione.
Da Coase a Kyoto
Per quanto riguarda la finanziarizzazione dell’inquinamento, le basi di questa strategia sono state gettate negli anni Sessanta. Proprio mentre nel discorso pubblico internazionale faceva capolino la questione ambientale legata agli impatti dell’industria sulla vita, la salute e gli ecosistemi (il rapporto sui Limiti della crescita è del 1972), le menti più influenti di un’accademia sempre più egemonizzata dal pensiero neoliberista lavoravano per trovare una strategia capace da un lato di proteggere il sistema capitalistico dalla nuova minaccia, dall’altro di riproporlo come unica possibile soluzione.
Il commercio delle emissioni è figlio di questo momento storico, nel quale si fronteggiavano due possibili approcci nei confronti dell’inquinamento: quello della regolamentazione diretta da parte dello stato e quello della «flessibilità» del mercato. Nel mezzo si collocava l’idea di tassare le esternalità negative per spingere le imprese a innovare i sistemi produttivi: una soluzione che prevedeva di mettere un prezzo all’inquinamento con l’obiettivo di trasformarlo in un costo per il produttore.
La regolamentazione dei settori inquinanti sparì dal ventaglio di proposte per decenni: soltanto oggi, che gli altri approcci hanno collezionato una quantità di fallimenti ineludibile, la vediamo tornare prepotentemente in voga. Il mercato del carbonio, dunque, fu il risultato di uno scontro fra le visioni superstiti, incarnate da due economisti dei primi anni Sessanta: Ronald Harry Coase e Arthur Cecil Pigou. Quest’ultimo fu il teorico di quella che venne poi chiamata «imposta pigouviana» da cui deriva, ad esempio, la carbon tax: una tassa per unità di inquinamento, nata per far pagare chi produce esternalità negative. Ma Ronald Coase, che incarnava meglio lo spirito del tempo, ebbe successo con la sua proposta di pagare il costo sociale di un’attività negoziando diritti di proprietà fra diversi attori. L’imposta pigouviana avrebbe fatto male a chi la subiva, mentre per Coase bisognava lasciar fare i singoli operatori per raggiungere il risultato migliore. Il mercato sarebbe stata l’arena della trattativa, lo spazio in cui si si sarebbero realizzate le scelte più efficienti ed eque. L’onda lunga di questa scuola di pensiero arriva fino a oggi, come dimostra il recente dibattito creato dal controverso paper di Alberto Bisin e Piero Gottardi. Secondo i due economisti, la regolamentazione delle attività imprenditoriali da parte dello Stato in risposta alla pandemia dovrebbe essere sostituita dalla possibilità per le imprese di ottenere «diritti di infezione» da scambiare poi sul mercato. L’idea è quindi acquistare il diritto di far ammalare un dipendente pagando in anticipo le eventuali conseguenze in termini di costi sociali. Le quote di infezione, distribuite da un’authority pubblica, possono poi essere oggetto di compravendita fra le aziende, che si accordano di volta in volta sul prezzo a seconda, per esempio, dell’andamento dei contagi e dei decessi. In questo progetto, il diritto umano alla salute e a un ambiente salubre, così come i diritti del lavoro, diventano variabili dipendenti di un mercato finanziario innalzato a unico regolatore dei rapporti sociali.
Oltre mezzo secolo prima di Bisin e Gottardi, Thomas Crocker, altro economista a stelle e strisce, nel 1966 sostenne il commercio di inquinamento atmosferico, idea raccolta e rilanciata dal collega canadese John Dales due anni più tardi. Dales propose di adottare la seguente strategia: passare a una legge che mettesse un tetto all’inquinamento, e contemporaneamente distribuire alle imprese inquinatrici dei permessi di inquinare. Chi pensava di eccedere il tetto fissato per legge, avrebbe comprato permessi da chi ne aveva in eccesso. Il prezzo sarebbe stato oggetto di trattativa. Quando il costo dei permessi avrebbe superato quello di una riforma della struttura produttiva, il passaggio tecnologico avrebbe avuto luogo e l’inquinamento complessivo si sarebbe ridotto.
Nel 1971, William J. Baumol, Wallace E. Oates dimostrarono la maggiore economicità dei meccanismi di mercato nel concretizzare gli obiettivi di politica ambientale, aprendo la strada a un’idea che ha dato luogo al più grande sistema di mercificazione degli elementi naturali.
Gli Stati uniti sono stati i primi a sperimentarli, con l’Agenzia di protezione ambientale (Epa), istituita nel 1970 sotto il presidente repubblicano Richard Nixon, pronta ad abbracciare questa «regolamentazione flessibile». Inizialmente era permesso ad alcune imprese trasferire le proprie quote di emissioni internamente, tra le proprie fabbriche, in modo che nel complesso dimostrassero performance entro i limiti di legge. In breve tempo furono consentiti i trasferimenti tra società diverse e nacque il «meccanismo di compensazione», sancito ufficialmente dal Clean Air Act con un emendamento nel 1977. Sotto Carter e Reagan, il mercato dell’inquinamento si consolidò: alla fine degli anni Settanta, mentre la benzina al piombo veniva gradualmente eliminata negli Stati uniti, una raffineria che non riusciva a rispettare i limiti poteva fare media con una che riusciva a farlo con un qualche margine.
In parallelo, l’idea cominciava a circolare anche nelle Nazioni unite, per problemi che andavano oltre la dimensione locale, come le emissioni di diossido di zolfo delle centrali a carbone che acidificavano le acque e i clorofluorocarburi che bucavano l’ozono. Nel 1985 il Protocollo di Helsinki mise per la prima volta un obiettivo di riduzione vincolante dell’inquinamento da zolfo (-30% entro il 1993 rispetto ai livelli 1980). Nel 1987, il Protocollo di Montreal andò oltre, decretando la misura delle riduzioni dei Cfc e permettendo lo scambio di quote fra paesi.
Nel giro di un decennio, l’idea sperimentata dall’Epa su scala locale, faceva il salto nella governance internazionale. Tuttavia, all’inizio non funzionò: le quote erano rigorose, gli emettitori pochi e nel protocollo mancavano le procedure di contabilizzazione. Di conseguenza, il meccanismo di mercato fu esercitato raramente. Gli accademici Joel Swisher e Gilbert Masters furono i primi nel 1989 a proporre «un meccanismo internazionale di mercato che assegni un valore alla protezione del clima». Questo ci porta alla Conferenza di Rio su Ambiente e Sviluppo del 1992, considerata da molti il momento di vera presa di coscienza pubblica della crisi ecologica. La Convenzione che ne sortì – Unfccc la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici – prevedeva un dialogo internazionale strutturato per la risoluzione del problema, ma non dimenticava di aggiungere: «Politiche e misure per affrontare i cambiamenti climatici dovrebbero essere convenienti, in modo da garantire benefici globali al minor costo possibile».
Con il Protocollo di Kyoto, siglato nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005, lo scambio dei diritti di inquinare diventa elemento centrale delle politiche climatiche su scala globale. L’idea di inserire questi meccanismi nel dialogo di Kyoto venne avanzata dalla delegazione statunitense, la quale sosteneva che solo i meccanismi di mercato avrebbero potuto ottenere riduzioni delle emissioni efficienti e convenienti. Nel tentativo di portare gli Stati uniti a bordo del Protocollo, gli altri i paesi accettarono con riluttanza l’introduzione dei meccanismi di commercio e compensazione del carbonio. In pochi anni però, sono passati dallo scetticismo a una cauta accettazione. Nel 2005 il trattato è finalmente entrato in vigore, e da quel momento l’entusiasmo per i mercati del carbonio è andato crescendo sempre più.
L’euforia per la nuova bolla speculativa era ben motivata: il Meccanismo di Sviluppo Pulito (Clean Development Mechanism, Cdm) alla base di Kyoto consentiva alle imprese con sede nei paesi dell’Annesso I (nazioni industrializzate) di investire in progetti di conservazione delle foreste o riduzione delle emissioni nei territori dell’Annesso II (paesi «in via di sviluppo»). Questi progetti, meno costosi da implementare nel Sud del mondo rispetto ai paesi di origine, avrebbero evitato un aumento delle emissioni sostituendo fonti obsolete o inquinanti e generato crediti di carbonio, che le imprese investitrici avrebbero poi riscosso e – volendo – rivenduto sul mercato. In questo modo, secondo i promotori del meccanismo, si sarebbero raggiunte riduzioni complessive dei gas serra emessi in atmosfera al minor costo possibile, dotando nel frattempo paesi poveri di tecnologie moderne a basso impatto.
Fallimento totale
Il carbonio è diventato così una commodity globale, dando avvio a un’industria sempre più sofisticata fatta di società di brokeraggio, esperti di certificazione dei progetti, registri di contabilità dei crediti, banche della biodiversità, istituti di analisi. Ma quando un dossier del 2016 redatto dall’Oko Institute per la Commissione europea ha fatto il punto sui risultati raggiunti a distanza di dieci anni, ha scoperto che «nell’85% dei progetti analizzati c’è una bassa probabilità che le emissioni siano davvero addizionali e non sovrastimate». Intanto, le emissioni globali sono cresciute tutti gli anni eccetto una piccola parentesi dopo la crisi finanziaria del 2008 che, come l’attuale pandemia, si è riflessa sull’economia rallentando la produzione manifatturiera. Al netto della recessione, però, è evidente che il perno del più importante accordo globale sul clima prima di Parigi era così malfermo che le aziende e i paesi industrializzati hanno potuto evitare un cambio di modello produttivo grazie a meccanismi di finanza creativa tutt’altro che innocui. Sono moltissimi i casi in cui le comunità locali, consultate molto di rado prima di impiantare un programma di conservazione o un progetto energetico nel loro territorio, hanno denunciato land grabbing, abusi, violenze e minacce. Anche l’Italia ha partecipato al meccanismo di sviluppo pulito di Kyoto, collezionando brutte figure. Nonostante la manica larga delle Nazioni unite nell’approvazione dei progetti, il nostro paese si è visto bocciare due proposte di impianti idroelettrici in Cina. Emblematico il caso di una centrale gestita da Edison, rigettata per incapacità di dimostrare l’addizionalità delle riduzioni. L’Italia ha anche partecipato, dal 2011 al 2019, a un progetto di riforestazione nel distretto di Humbo, nel sudovest dell’Etiopia. Ne è nata una forte opposizione locale, repressa con detenzioni arbitrarie, minacce, ricatti e trasferimenti forzati.
Il commercio dei crediti forestali è tra i più controversi perché, come spiega Antonio Tricarico, direttore di Re:Common, «parte dall’assunzione che per salvare le foreste e far sì che producano i crediti di carbonio, chi ci vive non deve più utilizzarle come fonte di sostentamento perché ne causa il degrado. Così le comunità locali, che hanno un rapporto ancestrale e non estrattivo con gli ecosistemi, vengono espulse».
Ne è nata una nuova forma di colonialismo del carbonio, amplificata dagli schemi Redd delle Nazioni unite. Acronimo di Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation, il programma Redd doveva servire a finanziare progetti nei paesi in via di sviluppo ricchi di foreste, disincentivandone la distruzione. L’avvio fu fallimentare, perché rimaneva molto più redditizio tagliare gli alberi, vendere il legname, bruciare il rimanente e trasformarlo in pascoli. Così il Redd ha cambiato nome in Redd+, dove il segno aritmetico indicava che le foreste non dovevano più essere conservate intatte, ma si poteva praticare una «gestione sostenibile». Accostando il commercio di legname certificato e i crediti di carbonio, la speranza era di ridurre il disboscamento indiscriminato. Ma ancora una volta, al di là delle intenzioni, l’impatto sulla riduzione della deforestazione è stato trascurabile: al contrario, alle foreste sono state progressivamente sostituite piantagioni di alberi a crescita rapida, da poter tagliare e ripiantare a ritmo più sostenuto generando crediti di carbonio e legname industriale. Tutto questo senza contare gli episodi di truffa, accaparramento delle terre e violenze sulle comunità indigene, soprattutto in Brasile e in alcuni paesi dell’Africa e dell’Asia.
Oltre a numerosi governi, anche il Fondo verde per il clima – nato in ambito Onu per finanziare progetti di mitigazione e adattamento nei paesi in via di sviluppo – ha versato denaro nel pozzo nero dei Redd. L’ultimo caso eclatante è quello dell’Indonesia, che ad agosto ha ottenuto 103 milioni di dollari per aver evitato emissioni di CO2 nel settore forestale durante il periodo 2014-16. Subito dopo però il disboscamento ha ripreso a pieno ritmo, con picchi preoccupanti proprio durante la pandemia.
Intanto, Banca Mondiale e agenzie Onu come la Fao stanno mettendo a punto un’ulteriore estensione del meccanismo: oltre al commercio di carbonio e legname da piantagioni industriali, verrà coinvolta anche l’agricoltura e le emissioni derivanti dagli usi del suolo. Secondo Jutta Kill, ricercatrice del World Rainforest Movement, si rischia così di «espandere l’accaparramento delle terre oltre le foreste, su aree molto più ampie gestite dall’agricoltura contadina». Le «soluzioni basate sulla natura» (Nature Based Solutions), di cui si parla sempre di più negli eventi collaterali delle conferenze mondiali sul clima, sono il traguardo di questa corsa alla finanziarizzazione totale: alla fine, ruscelli, foreste, torbiere, terreni e laghi con i loro cicli vitali potrebbero essere considerati serbatoi di carbonio, che con il loro «lavoro» producono crediti utili alle imprese per «compensare» la continua distruzione ambientale in altri luoghi.
Il caso europeo
Oltre ai programmi nati in ambito Onu c’è un terzo tipo di mercato del carbonio, che trova la sua espressione più compiuta nell’Emission Trading System europeo (Ets). Nell’Ets avvengono oggi l’80% degli scambi di emissioni globali e sono coinvolti circa dodicimila impianti industriali di diversi settori ad alto impatto climatico: dal sinderurgico al cementiero, fino all’energetico. Più di recente anche i voli intraeuropei sono stati inclusi nel sistema, che rappresenta il principale strumento di politica climatica dell’Unione e copre quasi la metà delle emissioni continentali. Il funzionamento è diverso dai meccanismi di Kyoto: qui l’Ue mette un tetto alle emissioni totali, incoraggiando così chi rischia di superarlo all’acquisto di quote di carbonio vendute da player che hanno avuto performance migliori rimanendo sotto il limite. L’idea del sistema cap and trade, di nuovo, è che lasciare agli operatori privati la libertà di scambiare titoli di emissione garantisca riduzioni al minor costo possibile, al contrario della tassazione diretta o di altre forme di regolamentazione. In questo modo l’Ue spera di evitare la delocalizzazione delle imprese più inquinanti, immettendole allo stesso tempo su un percorso di innovazione sostenibile degli impianti.
Ѐ successo l’esatto contrario. Per accontentare l’industria, Bruxelles ha drogato il mercato per anni, pompando quote gratuite e distribuendole alle imprese in gran quantità. Saziate dagli aiuti, le società non avevano più bisogno di comprare sul mercato i permessi. Tutto questo, in corrispondenza di un calo delle emissioni innescato dalla crisi economica del 2008, ha fatto crollare la domanda e di conseguenza il prezzo della CO2. In più, come dimostrato dall’Ong Carbon Market Watch, le aziende non solo sono state riempite di quote di emissione gratuite, ma hanno potuto convertirle in denaro. Tra il 2008 e il 2014 hanno incamerato con questo giochetto 27 miliardi di euro senza ridurre le emissioni per ragioni diverse dalla recessione economica globale. La Commissione e il Parlamento europeo hanno cercato di riparare, promuovendo una riforma che ha messo in piedi una Market Stability Reserve (Msr), uno spazio virtuale dove vengono collocate all’occorrenza – togliendole dal mercato – le quote in eccesso. Saranno nuovamente insufflate nel sistema se dovesse servire per calmierare il prezzo. Dal 2021, inoltre, le quote distribuite da Bruxelles non verranno più regalate, ma messe all’asta. Oggi, dopo aver rasentato lo zero negli anni successivi alla crisi, il costo di una tonnellata di CO2 nel mercato europeo è di circa 25 euro: decisamente troppo poco rispetto ai 50-100 dollari stimati per il 2020 dalla Commissione sul prezzo del carbonio della Banca Mondiale, così come altrettanto distante è il traguardo dei 75 dollari raccomandato dal Fondo Monetario Internazionale per il 2030. Nonostante questa lunga storia di grandi promesse frustrate da risultati inesistenti, i mercati del carbonio continuano a crescere, variare e ramificarsi. Secondo Refinitiv nel 2019 il volume delle transazioni ha raggiunto i 194 miliardi di dollari: oltre a Kyoto e all’Ets europeo sono sorti mercati regionali delle emissioni con regole e prezzi diversi, dalla Cina alla California.
La posta in gioco
Il prossimo passo sarà mettere insieme tutti questi schemi e programmi in un unico grande mercato mondiale delle emissioni e dei crediti di carbonio sotto l’egida delle Nazioni unite. Il veicolo è l’Accordo di Parigi, che all’articolo 6 prevede di andare oltre Kyoto e creare una cornice legale capace di contenere tutte le esperienze in atto, accogliendo non soltanto progetti energetici o di conservazione forestale, ma qualunque tipo di credito generato dalla finanziarizzazione della natura. Il paese che li acquista potrà poi conteggiarli nei suoi impegni di riduzione delle emissioni. Alla Cop25 di Madrid, i negoziatori non sono riusciti a mettersi d’accordo sulle regole alla base dell’articolo 6: molti dei maggiori beneficiari del vecchio meccanismo di Kyoto, in particolare il Brasile, vogliono la stessa libertà di azione e niente vincoli ambientali o sui diritti umani, chiedono di poter calcolare due volte i crediti generati dai progetti (una per sé e una per l’investitore) e utilizzare sul nuovo mercato la montagna di certificati spazzatura non spesi nel Clean Development Mechanism. È probabile che alla prossima conferenza delle parti una sintesi verrà raggiunta, ma guardando alla storia di questi sistemi è lecito sospettare un altro accordo al ribasso.
Larry Lohmann, ricercatore del Corner House e tra i maggiori esperti dei mercati del carbonio è fortemente critico sugli esiti del nuovo tentativo: «L’accordo di Parigi ha portato questo sofisma a nuovi livelli con false riduzioni a buon mercato chiamate Risultati di mitigazione trasferiti a livello internazionale (Itmos). Anche in questo caso, l’obiettivo è allungare il più possibile il periodo di estrazione e uso di combustibili fossili. Si rendono questi Itmos equivalenti alle effettive riduzioni delle emissioni. Come se questo sotterfugio non fosse già abbastanza oscuro, è stato ulteriormente nascosto rifiutandosi di ammettere che i trasferimenti di false riduzioni avvengano effettivamente in un ‘mercato’. Molti delegati che hanno negoziato a Parigi sono stati istruiti a non usare le parole ‘mercato del carbonio’ in pubblico per descrivere il loro trattato, perché nel 2015 era diventato ormai chiaro che i mercati del carbonio stavano solo peggiorando il cambiamento climatico. A quanto pare la mossa ha funzionato: molti giornalisti e gruppi ambientalisti descrivono ancora Parigi come un accordo sul clima piuttosto che come un trattato commerciale varato per sostenere l’estrazione dei combustibili fossili».
Nonostante un movimento globale di organizzazioni, collettivi e comunità negli anni scorsi abbia fatto emergere il pericolo della finanziarizzazione del clima, oggi l’attenzione della società civile è calata: molte organizzazioni ambientaliste hanno supportato o supportano tutt’ora le soluzioni di mercato, convinte che con i giusti bilanciamenti possano far parte di un portafoglio di politiche per il clima. La battaglia per il rifiuto categorico di mercificare gli elementi fondativi della vita planetaria sono dunque, ancora una volta, in mano ai movimenti per la giustizia climatica e sociale, unico ambito in cui oggi può germogliare il pensiero più trasformativo. Per trovare la sua efficacia e condizionare il corso delle cose, occorre declinare la sua potente tensione egualitaria verso la trasformazione dei sistemi produttivi e la contemporanea sottrazione di spazi vitali alla ragione economica. Se questa saldatura si concretizzerà nelle mobilitazioni, il tentativo estremo di sovrapporre il mercato alla biosfera potrebbe essere fermato.
Questo articolo è stato pubblicato su JacobinItalia il 2 settembre 2020