Se tra Otto e Novecento chi trasgrediva alle norme di genere veniva arrestato e rinchiuso nei manicomi, oggi viene patologizzato e delegittimato nei media che raccontano atti di coming out come episodi di bullismo
Acavallo tra Otto e Novecento, in Italia, le esperienze di persone non conformi alle norme di genere iniziano a diventare oggetto di interesse pubblico. Ne Il gioco delle parti. Travestimento e paure sociali tra Otto e Novecento la storica femminista Laura Schettini analizza «le modalità mediante cui le autorità e i diversi attori sociali hanno percepito, rappresentato, accolto, condannato» queste esperienze in quel preciso momento storico. Se per le persone direttamente interessate le pratiche che Schettini riunisce sotto il concetto (a oggi controverso) di «travestitismo» rappresentavano uno spazio di possibilità per accedere a un’identità e una vita desiderate, per la stampa e i dispositivi di controllo scientifici e giudiziari queste pratiche e chi le attuava rappresentavano piuttosto la minaccia del superamento dei modelli e dei ruoli di genere eterosessuali tradizionali e la cosiddetta «omosessualizzazione» della società.
Le persone che si comportavano in modo non conforme al loro sesso di assegnazione venivano descritte in modo sensazionalistico dai giornali suscitando paure e turbamenti. Il sesso viene infatti assegnato alla nascita dalla medicina in funzione della genitalità sulla base di un modello binario maschio/femmina. A seconda del sesso assegnato vengono poi costruite una serie di aspettative sociali relative al ruolo e all’estetica che una persona dovrebbe adottare. Il travestitismo, in quanto pratica non conforme al sesso di assegnazione iniziò a essere associato alla criminalità e annoverato tra gli elementi che potevano segnalare una condotta disonesta nell’ambito dell’antropologia criminale. In ambito sessuologico venne poi accostato all’anormalità, alla patologia e alla perversione. Considerato che i quotidiani ricorrevano a queste nascenti culture scientifiche per spiegare i casi di travestitismo, le paure sociali e il discorso scientifico si sovrapponevano e si confondevano. Iniziano così a cristallizzarsi immaginari e significati negativi che circolano ancora oggi e che ri/producono il misconoscimento e la stigmatizzazione delle persone trans, non conformi alle norme di genere e non eterosessuali.
Ancora oggi alcune esperienze di genere sono veicolate e interpretate dai media e dai cosiddetti «specialisti» come devianti e patologiche, perpetrando un discorso eterocissessista e lesbobitransfobico che ha conseguenze materiali sulla vita delle persone coinvolte. Come teorizzato dall’attivista e teorica trans Julia Serano, il termine «eterocissessismo» fa riferimento alla credenza secondo cui le persone e le relazioni eterosessuali vengono considerate più naturali, vere, autentiche e quindi legittime di quelle non eterosessuali. Allo stesso tempo, le identità e le espressioni di genere delle persone cisgenere (ovvero non trans) sono ritenute più naturali, vere, valide e legittime di quelle delle persone trans.
Una prova recente del persistere di questa griglia di lettura eterocissessista e transfobica arriva dall’articolo pubblicato dal giornale Latina Oggi il 18 agosto scorso e rilanciato da altre testate, dal titolo Tomboy: il nuovo «gioco» tra gli adolescenti.
Secondo quanto riportato dal quotidiano online, nell’ultimo periodo sarebbe «sbarcato» nella città di Latina un «gioco tanto pericoloso quanto perverso» chiamato Tomboy. Sulla falsariga dell’omonimo celebre film di Céline Sciamma, questo «gioco» vede protagoniste «ragazzine che si travestono da maschietti, corteggiano le coetanee e poi quando si tratta di dare il primo bacio o entrare in intimità, escono allo scoperto e svelano la loro identità, provocando una fortissima delusione in chi diventa la preda». Secondo Latina Oggi questo gioco può «provocare conseguenze gravi sotto il profilo psicologico» sulle «vittime», ovvero «ragazzine a cui viene intaccata l’autostima». Infine, a sostegno della pericolosità e della perniciosità del fenomeno, la testata riporta l’opinione della psicologa e criminologa Alessia Micoli.
Anziché privilegiare una lettura della vicenda che identifica vittime e carnefici, ci interessa porre alcune questioni: chi ha stabilito che i «tomboy» non siano giovani ragazze lesbiche o adolescenti trans e che le loro coetanee non siano attratte da loro? Chi ha stabilito che le ripercussioni sulle persone adolescenti non derivino da come la vicenda è stata interpretata e gestita da adulti e «specialisti»? Quali potrebbero essere le ripercussioni sulle persone qualificate dal Latina Oggi come «tomboy»?
Nonostante l’articolo voglia denunciare presunti atti di bullismo, fallisce nel suo intento laddove non opera un chiaro distinguo tra il tema del bullismo e le questioni legate alle identità di genere. Vogliamo quindi operare un ribaltamento del punto di vista e articolare una lettura della vicenda da una prospettiva trans. Dimostreremo come, non separando il piano del bullismo da quello dell’identità ma mischiandoli deliberatamente in modo tendenzioso e appoggiandosi a una consulenza psicologica e criminologica, l’articolo ri/produce un discorso eterocisnormativo e lesbobitransfobico. Analizzando l’articolo da una prospettiva trans è infatti possibile individuare luoghi comuni e linguaggi tipici di una retorica che tradizionalmente stigmatizza le esperienze trans e non eterosessuali.
La delegittimazione delle identità di genere delle persone trans
Come affermato in una lettera firmata da associazioni e attivisti trans in reazione all’articolo in oggetto, non si può sapere se le persone raccontate siano adolescenti trans o lesbiche, «ma non possiamo non notare quanto il vissuto di persone non allineate al binarismo di genere nella migliore delle ipotesi venga considerato un ‘gioco pericoloso’, sminuendone l’identità, se non addirittura invisibilizzandola». La delegittimazione delle identità di genere delle persone trans o di coloro che non rispondono alla condotta di genere attesa sottende a tutto il testo dell’articolo di Latina Oggi ed è chiaramente veicolata attraverso il linguaggio scelto per descrivere i e le cosiddette «tomboy» e le loro pratiche. Termini quali «moda», «nuova tendenza», «noia» sono accostati in modo disinibito al fatto di portare un abbigliamento e costruire una corporeità diversi da quelli attesi dal proprio genere di assegnazione, per interpretare fin da subito questi desideri e queste pratiche relegandole alla sfera dell’effimero, del gioco temporaneo e quindi del non-vero. Omettendo ogni riferimento al fatto che il desiderio di identificarsi a un genere diverso da quello assegnato alla nascita o di avere una presentazione di genere non conforme è, al contrario, la realtà di molte persone trans, non binarie e non eterosessuali, chi scrive cancella e delegittima questi percorsi. Questa narrazione si fa quindi complice dei meccanismi di invisibilizzazione e stigmatizzazione delle persone trans e non eterosessuali.
La presentazione delle identità di genere delle persone trans come false e artificiose
In diversi passaggi del testo le persone categorizzate da Latina Oggi come «tomboy» sono sottoposte a scrutinio nel tentativo di dimostrare come la loro presentazione di genere sia una montatura, qualcosa di inautentico, che cerca di imitare il genere, scontatamente autentico, dei maschi cisgenere eterosessuali. In apertura, per esempio, vengono definite «ragazzine che si travestono da maschi». Il quotidiano procede poi articolandone una profilatura: «La felpa larga, i primi baffetti adolescenziali, tagliati più volte con il rasoio per farli ricrescere in fretta in modo che siano più folti. E poi c’è il taglio: i capelli rasati da una parte e un ciuffo che è tutto tranne che sbarazzino e si impenna».
In primo luogo, l’utilizzo del lessico sensazionalista del «travestimento» e della «maschera» per categorizzare persone che non hanno esplicitato il loro genere di elezione e le loro pratiche è ancora una volta sminuente perché le caratterizza come non-vere e caricaturali. In secondo luogo, l’attenzione morbosa che viene data ai dispositivi di genere quali vestiario e acconciatura sottende, come direbbe Serano, al processo di facsimilizzazione dei generi trans nell’obiettivo di mostrarli come intrinsecamente inautentici e quindi artificiosi o costruiti. Con il concetto di facsimiliazzazione Serano si riferisce alla tendenza a rappresentare le persone trans come finte, dei «facsimile» delle identità di genere delle persone cisgenere, che invece non vengono mai messe in discussione perché considerate vere e naturali di default.
La rappresentazione delle persone trans come predatrici sessuali
Il «travestitismo» è presentato come finalizzato alla predazione e quindi associato a una condotta deviante (i tomboy, scrivono, «corteggiano coetanee, poi la sorpresa»). L’appropriazione di un’estetica tradizionalmente associata al maschile da parte di persone assegnate al genere femminile alla nascita, viene definita un «gioco perverso», connotando l’atto in sé come patologico attraverso la scelta di questa terminologia. Da una prospettiva trans, la stessa pratica potrebbe essere letta come sperimentazione del proprio genere e del proprio desiderio sesso-affettivo.
A sostegno della connotazione patologica sia della pratica che dell’interazione, vengono citate le ripercussioni psicologiche su quelle che sono identificate come le vittime del gioco, ovvero ragazzine adolescenti presunte cisgenere ed eterosessuali, che si relazionano ai presunti «tomboy» adescatori. Non riteniamo possibile poterci esprimere su queste ripercussioni data l’assenza di dati e informazioni verificabili, ma sarebbe opportuno curarsi del benessere di tutte le persone adolescenti coinvolte.
L’utilizzo della retorica dell’inganno
Il termine «sorpresa», scelto nel sottotitolo per descrivere il momento in cui le persone «tomboy» rivelano il proprio «sesso», alimenta una retorica dell’inganno che dipinge le e gli adolescenti in oggetto come truffatrici e impostori: «si travestono da maschietti, corteggiano le coetanee e poi […] escono allo scoperto e svelano la loro identità».L’immaginario della «scoperta» lascia intendere che ci sia un «vero genere», che deve corrispondere ai genitali della persona, e che questo si contrapponga al genere espresso attraverso l’abbigliamento e i caratteri estetici, inteso invece come apparente, finto e costruito. Come argomentato dalla teorica trans Talia Mae Bettcher, la retorica dell’inganno ha una lunga storia. Spesso utilizzata come strategia difensiva nei tribunali da chi commette omicidi e/o violenze sessuali ai danni di persone trans, tale retorica permette di spostare il focus dalla violenza transfobica agita alle «intenzioni ingannevoli» della vittima. L’inganno porta infatti con sé l’idea di potersi arrogare la verifica di quello che viene inteso come il «vero genere» della persona, una pratica violenta che prevede l’esposizione forzata dei genitali, storicamente esercitata ai danni di persone trans, non conformi alle norme di genere e intersessuali. Ciò che viene definito «inganno» è quindi l’identità stessa della persona, che viene doppiamente misconosciuta, sia nella sua identità che nella violenza vissuta/subita.
Fondandosi sull’assunto che il genere è inestricabilmente legato al sesso assegnato alla nascita, la retorica dell’inganno schiaccia l’esperienza trans in tutt’altra narrazione: quella del truffatore quando «non si rivela», o quella della persona che si traveste quando «si rivela», rendendo impossibile in ogni caso per la persona identificarsi con il genere di elezione.
Il primato dei saperi «scientifici» sull’autodeterminazione soggettiva
Per sostenere la narrazione eterocissesista e lesbobitransfobica della vicenda, viene chiamata in causa una psicologa e criminologa in qualità di «esperta» che conferma «che sta emergendo questo tipo di fenomeno che bisogna contrastare» e aggiunge «è necessario portare le famiglie a vivere i figli […] ognuno si deve riappropriare del proprio ruolo».L’intervento di una psicologa e criminologa rappresenta, di per sé, un elemento problematico. L’utilizzo della psicologia, e ancor di più, della criminologia connota fortemente in una direzione chiara il tema in oggetto, poiché associa le esperienze che mettono in discussione il sistema binario dei generi alla condizione di patologia e devianza sociale, argomento su cui tradizionalmente si fondano tali saperi scientifici, che sono quindi chiamati non solo a diagnosticare ma anche a correggere questo tipo di esperienze. Infatti, tra le affermazioni della psicologa e criminologa risalta l’invito alle famiglie a «riappropriar[si] [ognuno] del proprio ruolo» lasciando intendere che dei ruoli più fluidi all’interno della famiglia siano la causa dell’identità non conforme alle norme di genere della prole. Questo invito è frutto di una lettura e un approccio eterocissessita che ancora pervade alcune discipline, come la psicologia, determinandone la qualità dell’intervento terapeutico.
L’articolo prosegue riportando che «le vittime sono ragazzine a cui viene intaccata l’autostima con conseguenze pesanti che possono portare anche a stati depressivi e ad una forte demotivazione» in ambito scolastico e sportivo. In questo estratto non solo si riafferma una modalità interpretativa discutibile nella lettura degli effetti, ma anche una problematica legata alla verificabilità dei dati riportati. Ancora una volta, chi garantisce che gli stati depressivi siano legati alle interazioni tra adolescenti coinvolti e non a come la vicenda è stata gestita e interpretata? Chi scrive parla come se stesse riportando dati chiari (fascia d’età e contesti in cui si manifesta il fenomeno, conseguenze sul profilo psicologico), senza però mai citare con chiarezza né i fatti avvenuti, né le fonti scientifiche utilizzate per provare le tesi sostenute. Queste ambiguità e la cattiva metodologia sembrano essere funzionali a provare un’ipotetica correlazione tra coming out trans e trauma «per chi lo riceve».
Ci preme sottolineare, in conclusione, come il coming out per una persona trans è un momento estremamente delicato, in quanto espone la persona che lo fa a un alto rischio di stigmatizzazione, vittimizzazione e violenza, tutt’altro che un gioco o una sfida tra bulli. Se tra Otto e Novecento le persone che trasgredivano alle norme di genere venivano arrestate e rinchiuse nei manicomi, oggi vengono patologizzate e delegittimate nella propria autodeterminazione attraverso meccanismi più subdoli, ma ugualmente coercitivi. Evidentemente, il legame tra pratiche trans e interpretazione patologizzante e criminalizzante non può dirsi ancora superato.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 7 settembre 2020