L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite sta mancando il suo primo obiettivo: eliminare la povertà. La pandemia aggrava la situazione ma non è la causa. È il modello economico che non funziona, denuncia l’esperto indipendente dell’Onu Philip Alston
La povertà è una scelta politica e la sua eliminazione richiede di: 1) riconsiderare la relazione tra crescita economica e riduzione della povertà; 2) contrastare le disuguaglianze e praticare la redistribuzione; 3) promuovere la giustizia fiscale; 4) implementare una protezione sociale universale; 5) mettere al centro il ruolo dei governi; 6) incoraggiare processi decisionali partecipativi; 7) adeguare la misurazione del livello di povertà internazionale”.
Per chi ha a cuore un’altra economia, l’ultimo rapporto di Philip Alston, ormai ex Special Rapporteur delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani (giugno 2014-aprile 2020), è uno strumento prezioso. Presentato a luglio dal successore -il belga Olivier De Schutter, che per lungo tempo si è occupato di diritto al cibo-, il documento dimostra in 19 “semplici” pagine come e perché l’eliminazione della povertà sia oggi un processo a rischio e che cosa andrebbe fatto in uno scenario stravolto dalla pandemia (250 milioni le persone spinte sull’orlo della fame da Covid-19 su scala globale).
Come capita a tanti lavori degli esperti indipendenti delle Nazioni Unite, il report di Alston non ha fatto particolare rumore. È difficile riconoscere di aver sbagliato “ricetta”.
È questo che il professore australiano di Legge ha scritto rivolgendosi all’Onu, alla Banca Mondiale, al Fondo monetario internazionale: il modello economico e sociale disegnato dalle istituzioni internazionali sta mancando i traguardi. Lo Special Rapporteur ha documentato l’analisi riferendosi in particolare all’ambiziosa (e altrettanto retorica) Agenda 2030 per lo “sviluppo sostenibile” delle Nazioni Unite, articolata in 17 obiettivi (Sustainable Development Goals) e 169 target. Il 25 settembre saranno infatti passati cinque anni dalla sua adozione; a un terzo del percorso le cose non stanno andando bene.
È il caso del primo obiettivo dell’Agenda, il cuore del mandato di Alston: “Porre fine a ogni forma di povertà nel mondo”. Oggi 700 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà fissata dalla Banca Mondiale (1,90 dollari al giorno). Un dato “ripugnante” secondo Alston che non risparmia il proprio biasimo a quei “leader mondiali, economisti e opinionisti” avvezzi all’autocompiacimento: “Hanno proclamato progressi contro la povertà presentandoli tra le più grandi conquiste umane del nostro tempo. La realtà è che per miliardi di persone le opportunità sono poche e le umiliazioni innumerevoli, e che li aspetta fame inutile e morti evitabili, senza godere dei diritti umani fondamentali”.
L’argomentazione dominante è che la povertà stia invece diminuendo: erano 1,9 miliardi le persone al di sotto di quell’asticella nel 1990. Ma l’indicatore cardine dell’Agenda (l’International poverty line, IPL), come ricorda Alston, è datato, improprio, “oscura le differenze di genere”, esclude numerosi gruppi sociali e contribuisce a far letteralmente “scomparire” la povertà in diverse regioni del Pianeta. “In troppi casi, i benefici promessi della crescita non si concretizzano o non sono condivisi”, denuncia il rapporto. Tanto è vero che “L’economia globale è raddoppiata dalla fine della Guerra fredda, eppure metà del mondo vive al di sotto dei 5,50 dollari al giorno, soprattutto perché i benefici della crescita sono andati in gran parte ai più ricchi”.
Il mondo ha dunque bisogno di “nuove strategie”. Una è la giustizia fiscale vera, non quella che ha portato le aliquote globali delle imposte sulle società a scendere da una media del 40,38 per cento nel 1980 al 24,18 per cento nel 2019. E la crescita non basta, ammonisce Alston mettendo in guardia dai ritornelli del buon capitalismo: “Sulla base dei tassi di crescita storici occorrerebbero 200 anni per sradicare la povertà al di sotto della soglia dei cinque dollari al giorno con un aumento di 173 volte il Pil globale”. Una prospettiva “irrealistica” che non tiene conto del degrado ambientale associato alla crescita economica e nemmeno dell’impatto del cambiamento climatico.
È il caso di rimettere mano all’Agenda, prima del 2230.
Questo articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 1 settembre 2020