Sicuri che il Sì sia un voto «anti-casta»?

di Fabio de Nardis /
1 Settembre 2020 /

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Il taglio dei parlamentari su cui si voterà nel referendum, è presentato come lo sbocco della rivolta contro la «casta» ma è appoggiato da tutti i principali partiti. E l’effetto appare il contrario dell’avvicinamento dei rappresentanti ai cittadini.

20 e 21 Settembre saremo chiamati a votare per confermare o meno la legge che riforma gli articoli 56 e 57 della Carta costituzionale, che determinano il numero di deputati e senatori. La legge, votata in Parlamento da M5S, Pd, Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, prevede la riduzione del 36,5% del numero dei parlamentari portando i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200.   

Per carattere e attitudine, tendo a rispettare molto le ragioni e le posizioni dei miei interlocutori. Anche in questo caso, cercherò quindi di argomentare la mia posizione a favore del No a partire da un tentativo di interlocuzione con gli argomenti apportati dai sostenitori del Sì. Comincerò dalle motivazioni più populistiche e, per così dire, sovrastrutturali, cioè le posizioni più utilizzate durante la campagna referendaria perché vanno direttamente a solleticare gli appetiti di un’opinione pubblica ormai da anni pervasa da un forte sentimento antipolitico.

● L’argomentazione che sembra andare per la maggiore corrisponde più o meno a questa locuzione: «Come fate a non rendervi conto del degrado che imperversa nelle aule parlamentari e della Mafia che ci sguazza? 315 parlamentari in meno, corrispondono a 315 disonesti e corrotti in meno». Si tratta della tipica argomentazione dei movimenti populisti che, ovunque nel mondo occidentale, contrappongono una «società morale» a una classe politica immorale e corrotta. Come accennavo, questa argomentazione è la più facile da smontare sul piano logico. Anche accettando l’idea bislacca secondo cui tutti i parlamentari siano corrotti, cosa c’entra l’istituzione parlamentare? Il malaffare si combatte colpendo gli affaristi non gli istituti costituzionali. Perché si parla sempre dei politici corrotti e tanto poco invece si sente parlare dei corruttori? Ovvio, perché i corruttori non fanno parte della società politica, ma di quel ceto «produttivo» e quella società civile tanto esaltati in questa retorica. Ammetterne l’esistenza e accettarlo come problema, farebbe saltare in un attimo il teorema populistico. Ma anche se pensiamo solo alla politica corrotta e non alla società dei corruttori, se il problema dei parlamentari è il Parlamento, perché a questo punto non liquidare il Parlamento e con esso anche tutti gli Enti Locali dove storicamente si annidano i maggiori casi di corruzione e concussione? Controllare la moralità di un uomo solo al comando è senza dubbio più facile che controllare quella di decine di migliaia di parlamentari, consiglieri, assessori, eccetera. Appare evidente che tale ragionamento non solo rischia di avere delle ricadute autoritarie, mettendo in discussione de facto le basi della democrazia rappresentativa, ma contesta l’idea stessa di «Politica» intesa come insieme di attività umane volte a regolare e organizzare la vita collettiva nell’ambito di una comunità di destino. Tale argomentazione è inaccettabile sia in premessa sia nelle sue conseguenze logiche. Più che di un dimezzamento dei parlamentari si dovrebbe ragionare dunque di qualità dei parlamentari, ma questo discorso non è connesso al numero dei seggi, ma alle modalità di selezione e reclutamento della classe politica. L’attenzione andrebbe rivolta dunque non verso la Costituzione, ma piuttosto verso una necessaria riforma culturale e organizzativa della politica in quanto tale e dell’attuale configurazione del sistema di partiti ormai ridotti a cartelli elettorali senza alcun progetto e visone del mondo.

● La seconda argomentazione è quella relativa al taglio dei parlamentari per esigenze di risparmio. Addirittura, il Movimento 5 Stelle ha tempo fa diffuso un manifesto, ora scomparso, in cui dichiarava un risparmio netto pari a 1 miliardo. Io non sono mai stato bravo a far di conto quindi sarei stato quasi tentato a credere a questa fandonia, ma la mia deformazione professionale che mi porta a un’inguaribile propensione alla verifica empirica mi ha portato ad affidarmi ai calcoli effettuati dagli economisti dell’Osservatorio sui conti pubblici diretto da Carlo Cottarelli che, qualcuno ricorderà, è un uomo quasi ossessionato dall’esigenza di risparmio attraverso tagli netti e lineari ai costi delle amministrazioni pubbliche. Ebbene, dai suoi conti, che direi di considerare attendibili, la realtà dei fatti è ben diversa. 230 deputati in meno corrispondono a un risparmio di 52,9 milioni a cui vanno aggiunti i 28,5 milioni di risparmio dal taglio dei 115 senatori, per un totale di risparmio di 81,4 milioni di euro. Si parla di cifra lorda. Questo vuol dire che una parte consistente di questa cifra ritorna comunque nelle casse dello Stato attraverso le tasse (Irpef e addizionali comunali e regionali) che, ovviamente, sono pagate anche dai parlamentari. Al netto delle tasse, il risparmio reale sarebbe dunque di appena 65,5 milioni di euro l’anno. Questa cifra include anche gli stipendi degli assistenti parlamentari, che non oserei definire «casta», e che verrebbero licenziati, anzi non più assunti. Anche volendo allargare al massimo la stima, il risparmio ammonterebbe a circa 0,90 centesimi di euro all’anno per ogni italiano. Praticamente il costo di un caffè al Bar, pari alla seicentesima parte del debito pubblico del nostro paese. Se l’intenzione fosse realmente quella di risparmiare, allora vi sarebbero decine di altri provvedimenti da poter adottare. Si pensi alla esorbitante evasione fiscale che (dati del Sole24Ore) costa al nostro paese circa 100 miliardi (non milioni) l’anno.

● Un’altra argomentazione si basa sul confronto con gli altri paesi europei secondo cui l’Italia sarebbe tra gli Stati che attualmente possiedono uno dei rapporti più alti tra numero di rappresentanti e numero di cittadini. Premetto che considero questo sforzo cognitivo e comparativo di dubbia utilità, dal momento che, se per una volta l’Italia è migliore degli altri paesi non vedo perché prendersela a male. Ma se stiamo ai dati, le stime dichiarate non sono così realistiche. Considerando infatti solo il numero dei rappresentanti nelle Camere elettive e considerando la diversa struttura dei sistemi elettorali dei vari paesi, vediamo che l’Italia possiede effettivamente una rappresentatività democratica migliore (ma non troppo) di paesi importanti come Regno Unito, Francia, Germania e Olanda e comunque peggiore rispetto ad altri paesi come Grecia, Portogallo, Finlandia, Svezia, Danimarca, Belgio, eccetera. Il taglio di quasi il 40% dei nostri parlamentari porterebbe in ogni caso l’Italia a essere uno dei paesi con il peggior rapporto di rappresentatività della propria popolazione tra i 28 Stati che appartengono all’Unione europea. Il problema della rappresentanza e della rappresentatività del Parlamento rispetto al numero della popolazione è roba seria. Non è un caso che i padri costituenti scelsero di non stabilire un numero fisso di parlamentari di Camera e Senato, limitandosi a fissare un rapporto tra numero di abitanti e numero di parlamentari, fissandolo a un deputato ogni 80.000 abitanti (o frazione superiore a 40.000) e un senatore ogni 200.000 abitanti (o frazione superiore a 100.000). Nella prima legislatura, rispettando questi rapporti, vennero infatti eletti solo 572 deputati e 237 senatori. Solo nel 1963 il numero di parlamentari fu fissato a 630 deputati e 315 senatori, andando sensibilmente a peggiorare il rapporto di rappresentatività auspicato dai costituenti, visto l’aumento vertiginoso della popolazione italiana. Sempre restando al taglio lineare dei parlamentari, a prescindere dai rapporti suindicati, si pone un problema serio di rappresentanza territoriale, soprattutto al Senato dove l’elettorato è suddiviso su base regionale e non, come alla Camera, su base circoscrizionale. Senza entrare nei tecnicismi, questo vuol dire che, al netto di un taglio del 36,5% dei parlamentari, alcune regioni subiranno un peggioramento della propria rappresentanza al di sotto della media nazionale, altre regioni (le meno popolose) subiranno invece un peggioramento nettamente superiore alla media nazionale, dal Friuli (-43%) fino all’Umbria e alla Basilicata che subiranno un peggioramento della propria rappresentanza regionale pari quasi al 60%. Questo perché i partiti che hanno votato la legge sul taglio dei parlamentari non hanno pensato di ridisegnare i collegi elettorali omologando l’elettorato di Camera e Senato. Per non parlare delle Circoscrizioni estere per cui l’Europa (più di 2 milioni di residenti iscritti all’Aire) avrà lo stesso peso parlamentare, e quindi la stessa rappresentanza (un deputato), di circoscrizioni molto più piccole come quella di Africa, Asia e Oceania dove il numero di italiani residenti è esiguo.   

● Un altro argomento a favore del Sì, per esempio in area Pd, sostiene che la riduzione del numero dei parlamentari è di per sé non necessaria ma può essere una buona riforma se compensata da un cambiamento del sistema elettorale in senso proporzionale. Non è un caso che il loro voto a favore in Parlamento è stato barattato con la «promessa» da parte del Movimento 5 Stelle, di una riforma proporzionale del sistema elettorale con soglia di sbarramento al 5%. Ma in realtà senza ulteriori correttivi (per esempio un adeguato ridisegno dei collegi elettorali di Camera e Senato, di cui nessuno parla) anche questo sistema elettorale sarebbe complice di un reale peggioramento delle condizioni della rappresentanza territoriale. Mi spiego: la soglia formale di sbarramento sarebbe del 5%, ma la soglia sostanziale, corrispondente alla percentuale che una lista dovrebbe raggiungere per incassare un eletto, sarebbe in realtà molto più alta. La riduzione del numero dei seggi elettivi disponibili per ogni regione rende nulla la possibilità di un partito medio-piccolo di poter prevalere nella competizione. La soglia sostanziale sarebbe del 12/15% fino a raggiungere picchi superiori al 20% nelle regioni a cui spettano meno seggi come la Basilicata. Al momento in Italia certe cifre sarebbero alla portata di appena due o tre partiti. Milioni di cittadine e cittadini rimarrebbero privi di rappresentanza istituzionale. Si pensi che anche nel terrificante sistema elettorale attualmente in vigore è prevista una clausola di salvaguardia delle liste minori attraverso una piccola quota di distribuzione nazionale dei seggi con soglia (reale) di sbarramento al 3%.  

● Un’altra argomentazione a favore del Sì è quella che fa appello a un’esigenza di semplificazione e velocizzazione dei meccanismi decisionali. Più o meno la stessa argomentazione addotta nel 2016 da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi nel loro progetto di soppressione di una delle due Camere. Gli italiani bocciarono pesantemente quell’idea anche e soprattutto grazie alla mobilitazione per il No dei partiti che oggi sono i principali sponsor dell’attuale progetto di revisione. Per carità, nulla di male; nella vita si può sempre cambiare idea. Quello della velocità decisionale è però un finto problema oggi, come allora. Le due Camere possono infatti lavorare contemporaneamente su progetti di legge diversi, riducendo quindi al minimo la potenziale ridondanza della doppia lettura. Allo stesso modo non esiste una connessione tra numero di parlamentari e velocità del decision making. Prima di tutto dobbiamo fare i conti con le consuetudini degli ultimi anni. La produzione decisionale, in linea con il processo di depoliticizzazione della politica, cioè del neoliberismo applicato ai processi di governo, oggi è di fatto appaltato agli esecutivi. Le leggi nate e prodotte effettivamente dal Parlamento sono pochissime. Oggi si legifera essenzialmente con voto di fiducia o attraverso decreti governativi e questo ha prodotto grandi distorsioni rispetto alla rappresentanza politica degli interessi delle classi subalterne. Nel 2016 il progetto di Renzi e Boschi andava proprio nella direzione di una costituzionalizzazione di questa consuetudine, riducendo formalmente il ruolo del Parlamento in favore dell’Esecutivo. Io credo che in questo risieda una delle principali contraddizioni dell’attuale modello di governance. Il Parlamento è il luogo in cui gli interessi sociali diventano oggetto di conflitto politico. Esso non va indebolito ma piuttosto rafforzato rispetto a esecutivi sempre più spesso subordinati ai grandi poteri economico-finanziari che implementano decisioni prese al di fuori dei luoghi della rappresentanza politica. Ma c’è di più; la semplificazione delle pratiche decisionali non è data dal numero dei parlamentari, ma dalle procedure e dai regolamenti parlamentari della cui riforma nessuno parla. Se vincesse il Sì, assisteremmo a meno parlamentari che agiscono secondo le stesse procedure di oggi, con l’unica differenza che una fetta consistente di cittadini non potrebbero contare su alcun rappresentante e riferimento istituzionale. La perdita di rappresentatività democratica che si realizzerebbe attraverso questo taglio lineare, senza alcun correttivo e riequilibrio, è dunque ulteriormente aggravato dalla mancata revisione dei regolamenti parlamentari. Qualcuno potrebbe obiettare: «ma si può sempre fare!»; ma allora perché non è stato fatto prima rendendo minimamente più credibile questa riforma? Manca qualunque idea di tutela delle minoranze che, ricordiamolo, è uno dei fulcri della teoria e pratica della democrazia rappresentativa. Oggi 30 deputati possono per esempio richiedere l’inversione di un ordine del giorno in Parlamento, con 230 deputati in meno sarà statisticamente più difficile mettere insieme questo numero di parlamentari. Perché nessuno ha pensato di abbassarlo a 20 o 25? Per formare un gruppo parlamentare servono oggi 20 deputati e 10 senatori. Con un Parlamento quasi dimezzato, perché non dimezzare anche questi numeri? Come potranno i partiti più piccoli avere propri rappresentanti nelle giunte e nelle quattordici commissioni parlamentari? La legge di riduzione dei parlamentari è stata approvata con una maggioranza schiacciante (ma non era un provvedimento anti-casta?). La parola passa agli elettori grazie alla richiesta di 71 senatori che hanno reso possibile che l’ultima parola spettasse alle cittadine e ai cittadini attraverso un importante strumento di democrazia diretta quale è il referendum confermativo. Con un Senato di 200 membri sarebbe stato molto difficile trovare queste 71 firme. Perché nessuno ha pensato di introdurre norme che facilitino il ricorso al referendum? L’estensione delle condizioni democratiche e di partecipazione popolare non rientra evidentemente tra le priorità dei sostenitori politici del Sì.    

● Per concludere, ci tengo ad affermare che non credo che la Costituzione sia sacra e non lo era neanche per i padri e le madri costituenti che non ha caso avevano previsto modalità di correzione e revisione della stessa. Credo però che ogni progetto di revisione costituzionale debba essere l’effetto di un disegno organico di riforma, discusso ampiamente e collettivamente, al di fuori degli interessi propagandistici dei partiti, e che si ponga in primo luogo l’obiettivo di estendere le condizioni democratiche. Non sono né un cultore del bicameralismo perfetto, né un difensore ideologico del numero 945. Credo però che un eventuale messa in discussione dell’attuale assetto parlamentare debba essere accompagnato da provvedimenti che avvicinino la base popolare ai propri rappresentanti, oltre a prevedere importanti istituti di democrazia diretta, come per esempio si prevede nel progetto di istituzione del referendum propositivo o «legge di iniziativa popolare rafforzata» che, non ha caso, giace tra le scartoffie del Senato. Una riduzione dei parlamentari è sensata in un disegno organico che preveda per esempio una modifica della legge elettorale in senso proporzionale puro, e non quel finto proporzionalismo di cui si discute oggi, con in più la parificazione dell’elettorato attivo e passivo per Camera e Senato. Lo stesso progetto di revisione costituzionale dovrebbe essere accompagnato da una ridefinizione organica dei regolamenti parlamentari che semplifichino e velocizzino le procedure decisionali ma soprattutto tutelino le minoranze. Tutto questo non mi sembra sia in campo. Oggi si propone solo un taglio lineare senza inserirlo in nessun progetto di ristrutturazione democratica e nessuno può garantirci che tale progetto venga successivamente contemplato. Questa legge è solo lo strumento populistico da parte di alcuni soggetti politici in crisi che hanno bisogno di recuperare consensi solleticando la rabbia antipolitica del popolo italiano. Cambiare la Costituzione è possibile, ma non per tutelare gli appetiti particolari di qualcuno. Per queste ragioni credo che votare No rappresenti oggi la scelta più logica, più democratica e più oppositiva nei confronti di quella «casta» così invisa alle cittadine e ai cittadini italiani.    

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 1 settembre 2020

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