di Valerio Nicolosi
“Rivolti ai Balcani” è una nuova piattaforma composta da 36 realtà diverse che, ognuna con le sue specificità e competenze, si è messa in rete per cercare di portare all’attenzione le violazioni dei diritti umani, tutti documentati nel “Dossier Balcani”, presentato lo scorso sabato a Milano proprio dalla piattaforma. Il dossier ripercorre la storia di queste rotte, diverse tra loro ma con lo stesso fine: arrivare nell’Europa Nord-Occidentale. Il racconto parte dal settembre 2015, quando fu trovato sulla spiaggia di Bodrum il piccolo Alan Kurdi, morto durante un tentativo di arrivare nell’isola di Kos, a poche miglia dalle cose turche. Ed è proprio il 2015, in piena crisi umanitaria in Siria, che si registra il picco di presenze: circa 765 mila persone quell’anno hanno attraversato i diversi paesi, arrivando via mare e via terra.
Quello fu l’anno della crisi diplomatica tra Macedonia e Grecia, con la chiusura della frontiera e l’assembramento nel campo di Idomeni, sul lato greco del confine. Fu soprattutto l’anno della barriera innalzata tra Serbia e Ungheria, voluta da Orban nel mese di luglio per chiudere la frontiera dell’area Schengen ai profughi. Gli accordi con che l’Unione Europea ha firmato con la Turchia del 2016 per bloccare il flusso hanno ridotto il passaggio di persone ma al tempo stesso hanno scavato la tomba dei diritti umani nel Mediterraneo Orientale. Da quegli avvenimenti la situazione è cambiata, così come è cambiata la rotta e contestualmente i numeri. Nel 2019 solo in Grecia hanno registrato 74.613 arrivi: di questi la gran parte hanno continuato verso Nord in un percorso fluido che cambia in continuazione per evitare blocchi e impedimenti che i governi mettono in atto.
Oggi il cuore della rotta – e delle violazioni – sono in Serbia, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Slovenia e ormai anche in Italia. Nel dossier si parla di respingimenti ma soprattutto di riammissioni, basate su accordi bilaterali tra Paesi e che sono diventate la normalità in questi paesi. “Noi contestiamo la legittimità di questa pratica in primis perché un accordo bilaterale tra Paesi non può sostituire una normativa europea sulle migrazioni e poi perché, trattandosi di persone che possono chiedere la protezione umanitaria, non è possibile mandarle indietro con un foglio in cui si attesta solo il loro ingresso illegale in Italia e nient’altro.” dice Anna Brambilla, avvocata del foro di Milano e socia ASGI, tra le relatrici della presentazione del dossier. Uno dei temi è proprio questo, perché le riammissioni che fa l’Italia verso la Slovenia vengono attuate senza una procedura ma solo con un foglio in cui si attesta che queste persone sono entrate illegalmente in Italia. Da Trieste o Gorizia vengono portate in Slovenia, dalla Slovenia in Croazia, sempre sulla base di un accordo bilaterale, e infine in Bosnia o in Serbia, da dove erano partiti giorni prima.
Dai profughi sulla Rotta Balcanica questo tentativo di viaggio verso Trieste e oltre viene chiamato “Game”, una lotteria difficile da vincere perché i Paesi coinvolti hanno dispiegato le proprie polizie di frontiera in modo capillare. E sono proprio le polizie un altro punto chiave del dossier, che si sono rese protagoniste di numerosi fatti di violenza. “Abbiamo denunciato più volte fatti di violenza e abusi commessi dalla polizia croata, uno degli ultimi è contro un gruppo di 16 persone provenienti dall’Afghanistan e dal Pakistan che sono stati fermati in territorio croato, hanno subìto 5 ore di violenze e percosse, venendo infine umiliati con della maionese e del ketchup versati sopra le ferite” racconta Paolo Pignocchi di Amnesty International, anche loro nella piattaforma “Rivolti ai Balcani”. “Dopo questo trattamento una persona si aspetta di essere arrestata e di subire un processo ma in quel modo il profugo potrebbe denunciare quello che gli hanno fatto e così, dopo 5 ore di violenze e umiliazioni, sono stati riportati nel bosco al confine con la Bosnia. Alcuni di loro non erano nemmeno in grado di camminare e sono stati soccorsi da una ONG”. aggiunge Pignocchi. Tornare in Bosnia vuol dire tornare in un sistema d’accoglienza che non funziona, organizzato su grandi campi dove è impossibile accedere ai servizi di prima necessità e dai quali di fatto non si può uscire, nemmeno per fare la spesa, pena l’espulsione.