Gli europeisti di fronte a ciò che resta del disegno europeo

18 Giugno 2020 /

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Open Doors Day in Strasbourg. Raising of the flags - Opening ceremony.

di Gianfranco Sabattini

E’ ancora diffusa l’idea che la realizzazione dell’Unione europea sia il più rilevante evento del mondo occidentale dal dopoguerra ad oggi; ciò, per diverse ragioni, quali in particolare, il superamento della rivalità tra i Paesi membri, la libera circolazione dei cittadini europei, il rispetto delle diversità culturali, la cooperazione con gli Stati non comunitari, il progressivo equilibrio tra competenze comunitarie e sovranità di nazioni, il metodo democratico seguito per mediare tra i diversi punti di vista ed altro ancora.

L’insieme di tali ragioni è ancora sufficiente per convincere la maggioranza dei cittadini europei che, per affrontare il futuro, sia preferibile rimanere nell’Unione, nonostante le difficoltà che si oppongono alla prosecuzione del processo di integrazione politica, ormai fermo da lungo tempo. Attualmente, quindi, anche se sono aumentati coloro che ripongono fiducia sulle soluzioni nazionali, la maggioranza dei cittadini europei è del parere che ritirarsi dal percorso comune sarebbe di grave pregiudizio al futuro del Continente e dei singoli Stati membri.

Tuttavia, il progetto europeo sta attraversando una grave crisi di fiducia. L’esito del referendum britannico sulla Brexit e la diffusione di movimenti antieuropei indicano che il disgregarsi del progetto comune è uno scenario ormai possibile, proprio in un momento come quello attuale, in cui maggiore è l’avvertimento che sarebbe necessario avere più Europa come scala minima per poter contare sulla scena internazionale e dare risposte concrete ed efficienti ai problemi più sentiti dai cittadini.

Il possibile rilancio del processo di integrazione è oggi frustrato dal fatto che le due “famiglie politiche” che hanno sinora gestito il processo, i cristiano-sociali e i socialdemocratici, sono fortemente indebolite, poiché con la crisi del 2007-2008 sono comparsi i movimenti populisti che, sebbene siano al potere solo in alcuni dei Paesi membri, sono in grado di condizionare l’azione dei singoli governi, divenuti fragili per via dell’indebolimento dei partiti tradizionali.

Inoltre – afferma Yves Mény, in “Per l’Europa è ora di essere radicali” (Il Mulino, n. 1/2019) – i Paesi membri dell’Unione sono divisi in sottogruppi, “ma anche in ‘club’ spesso antagonisti (Lega anseatica, Gruppo di Visegrad, Coppia franco-tedesca, tentativi populisti di costruire una ‘lega’ di eurocritici, ecc.). Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, dal canto loro – secondo Mény – lo hanno capito così bene che stanno “soffiando sulla brace, cercando di sfruttare al meglio i divari che si sono allargati tra ‘amici’”. E’ perciò un eufemismo – continua Mény – dire che l’Europa “sta andando male”, sia nel suo insieme (Unione Europea), che con riferimento ai singoli Stati membri. Non c’è Paese europeo che sia libero da difficoltà che minano le sue fondamenta, perfino “là dove tutto sembra andare per il meglio sul fronte economico, come in Germania, in Svezia, in Olanda o in Danimarca”.

I Paesi membri dell’Est dell’Europa, pur godendo di una crescita stabile, tendono tutti a non “soddisfare gli ideali di ‘buon governo’”, mostrando spesso di non aver compiuto una vera transizione democratica, lasciandosi alle spalle i vecchi regimi. Al Nord, le democrazie scandinave, per tanti anni considerate modelli da imitare, sono agitate dalle pretese dei movimenti populisti e sciovinisti. Nella parte occidentale del Vecchio Continente, il Regno Unito ha deciso di abbandonare l’Europa; una scelta destinata a pesare non solo sulla Gran Bretagna, ma anche sulle due Irlande. Dal canto suo, anche la Francia, pur non essendo governata da movimenti populisti, è agitata al suo interno da profondi contrasti che stanno rendendo la sua coesione sociale “tanto fragile quanto esplosiva”. Infine, la Spagna si trova anch’essa in una situazione controversa, caratterizzata da proteste sociali e dal problema catalano, di difficile soluzione, mentre solo il Portogallo, dopo un lungo periodo di austerità, sembra inserito in una prospettiva di crescita, essendosi sottratto al “virus populista”.

Al centro dell’Europa, la Germania – sostiene Mény – ha riscoperto “con sgomento che i vecchi demoni del passato non sono stati sconfitti del tutto e che, nonostante la sua invidiabile prosperità economica, gli antagonismi, gli odi e le divisioni sociali sono profondi all’interno dei suoi confini e ben visibili all’esterno”. Il Sud dell’Europa non fa eccezione rispetto alla altre grandi circoscrizioni geografiche dell’Unione Europea: l’Italia è da tempo retta da governi deboli e instabili, alle prese con un debito pubblico consolidato alle stelle, con un livello inadeguato di investimenti e con la paralisi delle riforme strutturali; l’Austria condivide la prosperità economica del Paese vicino del Nord, ma soffre della svolta a destra populista e xenofoba del Pese vicino del Sud; la Bulgaria e la Romania soffrono di una corruzione diffusa e del fatto che gli ex partiti comunisti “sono riusciti a qualificarsi e a controllare il potere in altre vesti”; Malta e Cipro si sono trasformati in paradisi fiscali e in centri di riciclaggio di “denaro sporco, mentre la Grecia, dopo un decennio di austerità, stenta ancora ad uscire definitivamente dal “tunnel” della grave crisi nella quale era caduta.

La situazione dell’Unione europea non è migliore se valutata dal punto di vista delle sue Istituzioni. Molti Paesi, ad esempio, membri sono in una situazione di opposizione radicale nei confronti della Commissione; fatto, questo, che rende difficile l’accettazione delle sue proposte di riforma e di adeguamento delle politiche nazionali. Si tratta di una situazione che ha solo favorito – a parere di Mény – il consolidarsi di una situazione paradossale, caratterizzata dalla formazione di due poli: da un lato, il polo del “potere economico”, che cerca di sfuggire ad ogni forma di controllo politico; dall’altro lato, il polo dei “governi democratici”, sempre più sottomessi a pressioni pubbliche che li rendono incapaci di risolvere i problemi che i cittadini chiedono che siano affrontare. L’Europa è così stretta nell’”occhio del ciclone”, sia nelle sue componenti che nel suo insieme, perché i suoi strumenti di governo “sono inadeguati al centro e impotenti alla periferia”.

La situazione è resa ancora più negativa sul piano del rilancio del processo di integrazione dalla mancanza di autorevoli leader; prevalgono così singoli gruppi di europeisti, ma le loro proposte, poco partecipate e prive di autorevolezza, risultano inappropriate, anche perché avanzate in un contesto dove è del tutto impossibile mobilitare un’opinione pubblica stanca di sentirsi rispondere che la soluzione dei problemi è solo possibile sulla base di compromessi e di “aggiustamenti incrementali”.

Perché la maturazione di questa situazione di stallo? Per una robusta schiera di osservatori, la risposta è da rinvenirsi nella firma del Trattato di Maastricht, che è stato il risultato di un compromesso finalizzato a contenere il crescente “peso” politico ed economico della Germania, attraverso la costituzione di un mercato comune interno, cui avrebbero dovuto far seguito la ripresa del processo di unificazione politica del Vecchio Continente su basi federaliste e la conduzione di una politica di difesa ed estera comune. A parte la costituzione del mercato interno, le spinte federaliste e quelle per una difesa e una politica estera comuni, all’epoca appoggiate anche dalla Germania, sono state fortemente ridimensionate su pressione di alcuni importanti Stati membri, quali il Regno Unito, l’Olanda e i Paesi scandinavi.

L’Unione Europea è venuta a così a caratterizzarsi solo sul piano dell’integrazione economica e finanziaria, dando vita a un mercato comune in cui è stata realizzata piena libertà di circolazione dei beni e dei capitali, rafforzato dalla creazione di una Banca Centrale e di una moneta comune. Secondo le idee neoliberiste del tempo, le regole di funzionamento del mercato interno dovevano essere quelle della libera concorrenza, con l’esclusione di qualsiasi possibilità di un intervento degli Stati a favore delle proprie imprese; un tal modo, nel rilancio del processo di unificazione degli Stati europei è stata privilegiata la competizione, non la solidarietà.

Un sistema simile poteva funzionare senza avvantaggiare costantemente qualcuno a danno di altri solo se vi fosse stata una sostanziale parità di condizioni di partenza; sotto questo profilo, alcuni Paesi, come l’Italia ed altri dell’Europa mediterranea, si sono trovati in una posizione di debolezza relativa rispetto a quelli più sviluppati; posizione che si manifesterà in tutta la sua estensione col sopraggiungere della crisi del 2007-2008.

La mancata realizzazione dell’assetto istituzionale federale non ha favorito una convergenza delle diverse economie, per cui l’onere dell’aggiustamento è stato lasciato alla responsabilità dei singoli Paesi. Nella situazione attuale, perciò, qualunque riflessione sul futuro dell’Europa non può che partire dal blocco del processo di involuzione, nella consapevolezza che la tendenza sempre più diffusa a privilegiare le sovranità nazionali, in luogo di una sovranità condivisa a livello europeo, avrà la conseguenza di compromettere irreversibilmente le realizzazione dell’antico progetto di unificazione dell’Europa.

Accontentarsi di aggiustamenti incrementali, di veti incrociati e di compromessi – prosegue Mèny – non può che portare a una catastrofe. Gli europeisti che ancora restano sono chiamati, non solo ad avanzare proposte più incisive, ma anche a “minacciare di praticare una sorta di strategia di provocazione europeista”; in altre parole, se gli europeisti vogliono realmente salvare l’Europa, devono sconfiggere, con la riproposizione della loro azione, lo “squilibrio mortale” che da tempo si è consolidato tra “le regole dell’integrazione negativa (l’eliminazione delle protezioni) e quelle dell’integrazione positiva (spesso impossibile da introdurre a causa dei meccanismi decisionali che la governano)”. E’ indispensabile – ritiene Mény – che vengano messi in discussione i meccanismi decisionali prevalenti, se gli europeisti vogliono realmente rilanciare il processo di costruzione dell’Europa federale.

In assenza di vere politiche di solidarietà, è  quindi necessario, conclude Mény, che gli europei reagiscano “per preservare le loro conquiste democratiche, politiche e sociali”, consapevoli che limitarsi ad osservare, a disapprovare e ad agire ai margini non farà che “accelerare il declino e la fine della più bella utopia […] inventata dall’Europa: an ever closet union“.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto sardo il 16 giugno 2020

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