di Jessy Simonini
Dal bullismo istituzionale di Decaro sul lungomare di Bari agli «ultimatum» di Sala sui Navigli a Milano, i primi cittadini hanno provato a occupare lo spazio politico dell’emergenza in competizione con i presidenti di regione, celando però una debolezza strutturale
Dal bullismo istituzionale di Decaro sul lungomare di Bari agli «ultimatum» di Sala sui Navigli a Milano, i primi cittadini hanno provato a occupare lo spazio politico dell’emergenza in competizione con i presidenti di regione, celando però una debolezza strutturale
Lo scontro tra governo e Regioni è una delle eredità che consegna la crisi da Coronavirus. Una dinamica a volte dura, che si è tradotta in frequenti corto-circuiti istituzionali (in particolare nel caso lombardo, ma non solo) e in punti di rottura veri e propri, come quello, più recente, fra il governo e la Regione Calabria, la cui governatrice Jole Santelli ha emanato un’ordinanza considerata come troppo permissiva e che è stata in breve tempo cassata dal Tar. Anche il presidente dell’Anci Antonio Decaro si è scagliato contro l’eccessivo protagonismo dei governatori. In questa polarizzazione fra Stato e regioni, il ruolo dei sindaci è apparso come secondario e offuscato da altri soggetti. Ma a dire il vero, dagli uffici comunali e dalle scrivanie dei sindaci sono passate decisioni significative, che hanno inciso direttamente sulla vita dei più deboli, dalle banali autorizzazioni per la consegna dei pasti alla gestione dei buoni per le famiglie in difficoltà passando al disbrigo delle pratiche amministrative per i funerali fino alla gestione delle strutture di assistenza pubblica per anziani, spesso in carico ad Asp comunali o sovracomunali. I sindaci hanno anche occupato massicciamente lo spazio mediatico, interpretando in modo nuovo e sempre più impolitico il proprio ruolo.
Partiamo da due immagini: nella prima, Antonio Decaro, sindaco di Bari, esponente di rilievo del Pd, si prodiga affinché i cittadini rispettino coscienziosamente il divieto di uscire di casa. Siamo nel pieno dei giorni dell’emergenza. Decaro si commuove di fronte alle insegne degli esercizi commerciali chiusi, mentre dalle finestre e dai balconi del quartiere Madonnella i cittadini effondono lunghi applausi in direzione del loro sindaco. Il borgomastro, presidiando palmo a palmo il territorio della propria città, rimprovera i baresi che si trovano in strada privi di una spiegazione o di un’autocertificazione. Il suo zelo punitivo si spinge anche oltre, nell’attaccare verbalmente un anziano che sta passeggiando in strada, diretto verso casa della figlia perché costretto con tutta probabilità a trascorrere in totale solitudine l’ennesima giornata di quarantena.
La dinamica securitaria e delatoria è presto innescata, a Bari come in molte altre città d’Italia. E la sorveglianza è garantita dagli stessi sindaci, ligi tutori dell’ordine pubblico, pronti a rimproverare chiunque si trovi sul marciapiede senza una buona ragione, possibilmente con una telecamera che riprenda con dovizia di particolari l’intera scena. Il clima sembra essere quello di un vecchio romanzo di Gadda, nel Maradágal su cui incombe l’ombra scura del minaccioso Nistitúo de vigilancia para la noche.
La seconda immagine ritrae sempre Antonio Decaro, ma dieci anni fa. All’epoca, Decaro è un consigliere regionale della Puglia su cui si sta per insediare la seconda, sfortunata, giunta di Nichi Vendola. Sarà poi deputato del Pd, fedelissimo renziano, eletto a Bari nel 2014 con un ampio consenso, che aumenterà in maniera rilevante nel 2019, fino a sfiorare il 70% al primo turno, in una città tradizionalmente poco favorevole al centrosinistra. In molti sembrano aver dimenticato quest’ultima immagine: i tempi in cui il futuro sindaco sosteneva e votava i piani di riordino sanitario della giunta regionale, che coincisero con tagli significativi di posti letto e di risorse; i tempi più recenti in cui, da sodale del premier Matteo Renzi, lo sostenne a due congressi del Pd e ne appoggiò l’attività di governo – caratterizzata, fra l’altro, da ulteriori tagli alla spesa per la sanità pubblica.
Ma il passato politico di Decaro è poco interessante, così quello degli altri ottomila sindaci d’Italia. Del resto ci viene ripetuto che i sindaci rappresentano tutta la cittadinanza, non semplicemente la parte politica di cui sono espressione: che siano di destra o di sinistra poco importa; quello che conta sono i risultati che portano a casa, l’efficienza della loro attività di governo, le strade asfaltate e il livello dei servizi garantiti, l’immagine di sé che riescono a trasmettere nelle lunghe giornate di lavoro, in cui fra inaugurazioni e hashtag accattivanti, «portano la città nel futuro», «progettano la città dei nostri nipoti» o lavorano alacremente «ogni giorno, ogni ora». Parole dalla vacuità disarmante (tratte da recenti campagne elettorali) che celano una triste verità: nella maggior parte dei casi, lo spazio municipale non rappresenta più un terreno di scontro o di battaglia politica. E i sindaci non sono più rappresentanti politici, ma meri amministratori. Lavorano per il bene della città, per «costruire il futuro» (ma si può scegliere una qualsiasi altra formula simile a questa), rivolgendosi all’intera cittadinanza, senza differenze ideologiche.
Il voto per i municipi si basa su risultati concreti, evidenze materiali (la qualità dell’asfalto, quella delle mense scolastiche o degli arredi urbani), simpatie, antipatie, conoscenze personali. Lo spazio politico del Comune diventa così uno spazio impolitico, su cui il sindaco esercita un potere rilevante e solitario, aiutato da strumenti operativi come le ordinanze, in un progressivo e inquietante annichilimento delle dinamiche assembleari e democratiche. Eppure in questa emergenza spesso i sindaci – in un tentativo di competizione con i propri presidenti di Regione – hanno occupato questo spazio impolitico (o forse pre-politico), per entrare nel quotidiano dibattito che ha scandito le lunghe ore della nostra quarantena. Ancora adesso i sindaci quasi ogni giorno, attraverso comunicati e dirette sui social, informano i loro cittadini delle novità, del numero di nuovi contagi o di decessi; sono i sindaci a piangere, a dare buone notizie, a farsi portatori di lamentele e rivendicazioni nei confronti del governo e delle regioni. Sono sempre loro a rivolgere pesanti rimproveri a cittadini che paiono refrattari a ogni tipo di ordinanza o decreto. E sono i sindaci dei Comuni più piccoli e isolati a rappresentare le sofferenze e delle difficoltà dei loro territori, difficoltà antiche, amplificate dall’emergenza.
Del resto, i sindaci dei piccoli Comuni lanciano da anni allarmi accorati sulle preoccupanti condizioni finanziarie dei loro enti, in molti casi incapaci di fornire i servizi essenziali o di prevedere nuovi investimenti. Il patto di stabilità e il calo progressivo dei trasferimenti hanno impoverito molti Comuni, a Nord come a Sud, portando parti consistenti d’Italia alla desertificazione economica, sociale e culturale. Problemi strutturali che in questa emergenza si sono resi ancora più evidenti, rivelando la solitudine degli amministratori e la debolezza di molti bilanci comunali. Bilanci che dovranno affrontare, fra vincoli e ristrettezze, una situazione sociale gravissima, già compromessa dall’atavica carenza di personale e di risorse che questi Comuni denunciano da anni. Le opache scelte tecnocratiche figlie del modello neoliberista che sono calate sulla schiena dei piccoli Comuni li hanno progressivamente svuotati delle proprie funzioni e hanno causato un arretramento significativo e pericoloso del ruolo del pubblico nel farsi carico dei servizi essenziali.
Alcuni sindaci di città più grandi, nei primi momenti dell’emergenza, hanno invece mostrato un’altra preoccupazione, legata alla salvaguardia del tessuto economico locale. Forse non si è discusso abbastanza del comportamento irresponsabile tenuto, nei primi giorni del contagio, dagli amministratori locali di alcune grandi città del Nord Italia. A Milano, il sindaco Giuseppe Sala ha rilanciato un hashtag dalle sfumature inquietanti: #milanononsiferma, utilizzato per realizzare video e, marketing oblige, anche magliette promozionali. Nella città dove #sifattura, per riprendere un’altra celebre formula, fermarsi significa perdere terreno rispetto al mercato globale e far bruciare milioni di euro a multinazionali e mercati finanziari. E fermarsi significa soprattutto mettere in crisi un modello molto preciso di città: quello della locomotiva d’Italia, dove la ricchezza e il benessere sono diffusi e dove, a differenza di altre parti del Paese, si rimane sempre in un ufficio fino a tardi. A distanza di qualche tempo, resosi conto della gravità della situazione, Sala ha ammesso, «forse», di aver commesso un errore nel promuovere questa campagna «contro la paura». « Il 27 febbraio in rete circolava il video #milanononsiferma: forse ho sbagliato a rilanciarlo, ma in quel momento nessuno aveva compreso la veemenza del virus» così ha twittato a qualche settimana di distanza, in quella che somiglia a una rapida quanto malsicura auto-assoluzione.
Ma è in buona compagnia: lo stesso «sbaglio» è stato commesso pure dai suoi colleghi di Brescia e di Bergamo, oltre che da quelli di altre città del dinamico e civile Nord Italia. L’impressione è che nelle tre città lombarde la diffusione di slogan e campagne pubblicitarie per non fermare l’economia e rassicurare i partner economici stranieri, non sia stata semplicemente uno sbaglio, ma piuttosto la testimonianza nitida di qualcosa di più profondo. Si legge, fra le righe di questi hashtag un po’ ottusi e all’apparenza apolitici, una precisa visione politica: l’esigenza di ripristinare immediatamente, di fronte al paventato blocco delle attività economiche, un chiaro modello sviluppo, quello di un capitalismo disposto a mettere in secondo piano la tutela dei lavoratori per garantire la continuità dei processi produttivi e delle attività economiche, seguendo alla lettera i dettami delle corporazioni padronali.
La preoccupazione dei sindaci potrebbe apparire legittima, visto il rischio rappresentato dalla perdita di migliaia posti di lavoro nel settore manifatturiero, fra gli altri. Eppure nessuno, nei discorsi che si sono susseguiti, ha mai fatto riferimento ai lavoratori e alle loro condizioni di vita, optando invece per formule più neutre: tornare a correre, non fermarsi, andare avanti insieme. Del resto, di fronte alla modesta proposta di una patrimoniale sui redditi più elevati (formulata dallo stesso partito che lo sostiene), Giuseppe Sala non si è smentito, rimarcando come questo sia «il momento di non creare differenze, di non dividerci. Piuttosto chiamiamo alla generosità gli italiani che in questa fase stanno dimostrando di essere molto generosi».
Ci si aspetterebbe un dibattito chiaro sull’indipendenza dei sindaci delle tre maggiori città lombarde dalla locale Confindustria e anche dalle associazioni di categoria (come quelle del commercio, fautrici di molte campagne promozionali): si tratta di un nodo politico centrale, per comprendere quale sia la loro autonomia decisionale e, soprattutto, l’autonomia della politica locale non soltanto sulla riapertura delle attività economiche, ma anche su molte altre questioni, dal caro affitti al peso degli investimenti privati sulla pianificazione urbanistica (un esempio: le future olimpiadi invernali fra Milano e Cortina). Se la sottovalutazione del fenomeno è un dato di fatto, altrettanto evidente è il modello di città che emerge da questi discorsi: una città in balia di poteri supplenti, potentati economici e corporazioni padronali che indirizzano le decisioni e i comportamenti degli eletti. Questi sindaci non sono né di destra né di sinistra, a poco servono le etichette che portano perché il loro unico punto di riferimento ideologico ora sembrano essere i danè, i soldi che i soggetti privati possono investire nelle città che amministrano.
A pochi giorni dalla campagna per non far fermare Milano, Brescia e Bergamo è seguito il lockdown completo e totale, foriero di pulsioni securitarie altrettanto inquietanti, che hanno rivelato come certi sindaci abbiano un approccio quasi podestarile all’esercizio delle proprie funzioni. Nella loro opera di vigilanza e repressione anti-passeggiatori, gli amministratori locali si sono sbizzarriti. All’immagine del bullismo istituzionale di Decaro sul lungomare di Bari possiamo aggiungerne molte altre: le plateali dichiarazioni del sindaco Cateno De Luca, a Messina, che gira la città a bordo di un’auto intimando ai propri cittadini di restare imperativamente in casa; l’indignazione dialettale del sindaco di Lucera di fronte alle parrucchiere che continuano a lavorare a domicilio; la sindaca di Rossano Veneto che se la prende con la vanità delle donne che desiderano depilarsi. Meglio ha fatto il sindaco di Cagliari, promotore di una campagna di affissioni che associa la morte dei propri cari a comportamenti individuali ritenuti irresponsabili.
Alcuni giorni fa, di fronte alle immagini di assembramenti lungo i Navigli a Milano, la reazione del sindaco è stata altrettanto violenta. Non ha esitato a definire il comportamento dei suoi concittadini «vergognoso», opponendo all’immagine di una Milano irresponsabile, dedita agli aperitivi e allo svago, quella di una città desiderosa di tornare a lavorare. Il suo post sui social aveva un titolo inequivocabile: un «ultimatum» a cui è seguito un discorso dalle sfumature ricattatorie. Il giorno successivo il sindaco Sala non ha potuto evitare di recarsi sul posto mostrandosi intento a presidiare il territorio e a vigilare. Si è poi impegnato ad effettuare più controlli, in quella che sembra a tutti gli effetti l’ennesima operazione di comunicazione, finalizzata ad aumentare la propria visibilità.
Ma sarebbe inutile, a quasi due mesi dall’inizio del lockdown, fare una cartografia di tutte le iniziative plateali promosse dagli amministratori locali: più utile rilevare come questa deriva sceriffesca si inserisca invece in una lunga fedeltà di politiche securitarie che hanno radici lontane e politicamente trasversali. Anni e anni di retorica sul decoro, sulla pulizia, sulla sicurezza urbana che si sono espressi in atti amministrativi non sottoposti al voto di un’assemblea, le ordinanze, firmate da un unico soggetto che è detentore di ampi poteri: il sindaco, appunto. I meccanismi di criminalizzazione e colpevolizzazione nei confronti dei cittadini che si sono innescati, promossi dagli stessi amministratori, celano però una debolezza strutturale, l’impreparazione di molti enti nella gestione dell’emergenza, le falle di Comuni che si sono scoperti da un momento all’altro senza strumenti per affrontare il virus e le sue conseguenze dirette sui cittadini. Le grida o le tirade colorite dei sindaci ci parlano così di Comuni deprivati di risorse e di personale, impoveriti da scelte politiche che negli ultimi vent’anni ne hanno limitato l’autonomia impositiva, pur assegnando ai sindaci poteri sempre più significativi in materia di ordine pubblico, decoro e repressione.
Appare legittimo chiedersi quale sarà il futuro ruolo dei Comuni nel post-emergenza: si potrà aspirare a un incremento delle competenze su temi come la sanità, il sociale e anche le politiche economiche? Sarà possibile conciliare queste nuove competenze con un ruolo interpretato in maniera pressoché monocratica e commissariale da molti amministratori? Di certo, quello che si pone è un problema democratico: in questi mesi, la vita di milioni di persone è stata certo regolata da decreti governativi ma anche da numerose ordinanze di presidenti di regione e di sindaci. Nel caso della riapertura delle aziende, a decidere sono invece stati i prefetti, in maniera totalmente discrezionale.
Nel secondo dopoguerra, i Comuni ebbero un ruolo centrale nella ricostruzione, ma in seguito furono anche il fulcro di celebri sacchi, corruttele e speculazioni. Gli anni Novanta hanno registrato una trasformazione profonda dell’assetto politico municipale, a partire soprattutto dalle modalità di elezione degli amministratori stessi. L’elezione diretta del sindaco (con un secondo turno nelle città superiori ai quindicimila abitanti) è stata il fulcro di questo cambiamento: se in precedenza sindaco e giunta erano espressione diretta del consiglio comunale e, spesso, di accordi fra forze politiche di cui era prevista una rappresentanza proporzionale, l’elezione diretta ha consegnato a un’unica figura un potere significativo, come per esempio quello di nominare e revocare i membri della propria giunta. È venuto così un tempo nuovo, fatto di liste civiche, di progetti trasversali privi di una connotazione politica e di un «bene comune» difficile da situare politicamente e che ha relegato i partiti ai margini. Sono stati, al contrario, promossi partiti «dei sindaci» che hanno rivendicato il proprio approccio concreto e anti-ideologico e figure fumose come quella del «sindaco d’Italia», evocata a più riprese da tanti leader di destra e di centrosinistra per ribadire la stringente necessità di uscire dalla palude del parlamentarismo.
La maggioranza bloccata e assoluta di cui dispone il sindaco (spesso sostenuto da liste personali composte da suoi stretti collaboratori), in un sistema super-maggioritario a garanzia della governabilità, ha ridotto la discussione assembleare e il potere contrattuale delle opposizioni, svuotato di sovranità gli organi elettivi e, di riflesso, consegnato un potere più ampio al sindaco e alle figure tecniche apicali del Comune, come il segretario comunale e i dirigenti. Il municipio non è più luogo di discussione o di conflitto, ma semplicemente il luogo in cui un sindaco eletto direttamente esercita il proprio potere attraverso ordinanze e delibere di giunta (organo che è presieduto sempre dal sindaco), senza compromessi e intermediazioni politiche.
Il tempo dell’emergenza ha dato molto spazio alle fulgide figure di sindaci-sceriffi o di sindaci-viceré che non ci interrogano soltanto sulla situazione dei Comuni dopo anni di tagli e di politiche securitarie, ma più globalmente sulle strutture portanti della politica municipale. Il tempo dei politicismi e dell’assemblearismo, almeno per i Comuni, è finito insieme alla prima Repubblica. Ora c’è un tempo nuovo, un tempo in cui i poteri economici e le strutture private sembrano influenzare profondamente le scelte strategiche delle amministrazioni locali sulle politiche economiche, sull’urbanistica e sul rapporto fra pubblico e privato. E così, mentre i sindaci multano i passanti, i gruppi immobiliari e industriali decidono come si deve investire e dove si deve costruire. L’urgenza sembra allora quella di ripoliticizzare lo spazio municipale, rivendicando l’esigenza di massicci investimenti pubblici e consegnando agli organi assembleari una funzione politica che hanno perduto da troppo tempo.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin Italia il 15 maggio 2020