di Loris Campetti
Era passato da tre ore il 25 aprile quando un infarto, senza aspettare settembre per fargli festeggiare i suoi primi ottant’anni, se l’è portato via. Giulietto Chiesa è morto. La prima cosa che mi viene in mente di lui non è la sua straordinaria biografia ma il suo ottimismo, quando nulla di ciò che avveniva intorno a noi sembrava giustificarlo, la sua allegria. Il suo odio per la guerra mescolato a un modo visionario di fare giornalismo di qualità. Le sue straordinarie doti di attore nel proporre brindisi lunghi mezz’ora che raccontavano storie picaresche e metapolitiche russe e georgiane. Le sue lacrime quando insieme a Gino Strada e Vauro in Afghanistan vedeva cadere le bombe americane sulla testa di bambini innocenti. Raccontava l’Unione sovietica, e poi i paesi in cui si era frantumata, con rara professionalità, passione e ironia, l’ha fatto su l’Unità e sulla Stampa, su Rai1, Rai3, Rai5, e ancora sul manifesto e sul Fatto quotidiano. Lo faceva a cena con gli amici dopo il brindisi. Dietro il suo volto da icona sovietica con cui recitava editoriali e lanciava anatemi su Pandora Tv che aveva fondato, oppure su Sputnik, si nascondeva una grande umanità. E’ stato dirigente comunista prima nella Fgci e poi nella federazione Pci di Genova, a chi lo accusava di stalinismo va ricordato che è stato amico e sodale di Gorbaciov (così come la sua compagna Fiammetta Cucurnia), oppure che quando la Tass chiese a Enrico Berlinguer di rimuoverlo dall’incarico di corrispondente per l’Unità dall’Urss perché evidentemente poco fedele alla linea, il segretario del Pci rispose con un niet. Con lui, negli ultimissimi anni, si poteva dissentire su monte cose. Sull’approccio a volte “complottista” che gli consentiva di far ricadere sempre le colpe di guerre, disastri o attentati sugli Stati Uniti, molte volte ci azzeccava, qualche volta no. Si poteva litigare di fronte a una spianata di polenta fumante sulle scie chimiche. Si poteva dissentire dalla scelta di presentare una sua lista – la Lista del popolo – alle elezioni, lui che era stato europarlamentare, ma era difficile rifiutargli una firma perché potesse provarci, certi che un sicuro flop non avrebbe scosso fiducia e ottimismo. Lo ricordo una domenica a Genova, il giorno dopo la mattanza della Diaz del luglio 2001, intento a spiegare ai più giovani le conseguenze della globalizzazione neoliberista. Lo ricordo non molto tempo fa mentre dalle falde di un ghiacciaio nella Patagonia cilena dettava tramite telefonino un editoriale in lingua russa sulla situazione italiana per Sputnik, o in italiano sulla situazione russa per una testata di casa nostra.
Ciao Giulietto, ci mancherà il tuo sorriso ironico sotto i baffi e le tue analisi implacabili.