di Gianfranco Sabattini
In questi ultimi anni, i fenomeni che hanno caratterizzato la vita economica e sociale di molti Paesi occidentali ad economia di mercato (nascita e diffondersi dei movimenti populisti, proteste di piazza, Brexit, guerra dei dazi tra USA e Cina, ecc) sono la conseguenza della lunga crisi economica culminata nella Grande Recessione del 2007-2008; una crisi che Francesco Saraceno, docente di Macroeconomia internazionale ed europea presso l’Università “Science Po” di Parigi e autore di “Dieci anni di crisi. O quaranta?” (Il Mulino, n. 1/2019), riconduce all’aumento vertiginoso della disuguaglianza in gran parte dei Paesi avanzati ed emergenti. Un aumento con “un chiaro vincitore, il ristretto gruppo di ‘plutocrati globali’ che si è appropriato di una fetta sempre più grande della torta; e anche un chiaro perdente, quella classe media e inferiore dei Paesi avanzati schiacciata tra l’1% più ricco (quasi tutto localizzato nelle grandi democrazie occidentali) e una rampante nuova borghesia dei Paesi emergenti”.
Per Saraceno, l’aumento della disuguaglianza ha causato a sua volta la crisi finanziaria del mercato globale, dove l’accumularsi degli squilibri “ha imposto forti distorsioni nei comportamenti di consumo e risparmio, e condotto all’accumularsi di un debito eccessivo in alcuni Paesi”. L’individuazione precisa dei fattori che hanno causato la peggior recessione dopo quella degli anni Trenta del secolo scorso è quindi necessaria, se si vuole elaborare una razionale linea di politica economica, al fine di evitare che la crisi si ripeta. Quali sono state – si chiede Saraceno – l cause della recente recessione? A suo parere, l’elemento scatenante è stata “la combinazione letale di due fattori”; il primo è riconducibile alla deregolamentazione progressiva del sistema finanziario; il secondo, è ascrivibile al prevalente eccesso di liquidità (dovuto a una politica permissiva del credito praticata soprattutto negli Stati Uniti) e, quindi, all’eccesso di risparmio di “intere regioni del pianeta, come l’Asia orientale e alcuni Paesi europei (in particolare la Germania)”.
La deregolamentazione del sistema finanziario ha consentito il proliferare di innovazioni finanziarie divenute sempre più sofisticate ed opache, il cui scopo è stato quello di distribuire e minimizzare il rischio d’investimento, ma che, in realtà, – afferma Saraceno – “hanno avuto come risultato la sempre maggiore divaricazione tra la presa di rischio e il rendimento atteso degli investimenti finanziari”; fenomeno, questo, che ha motivato gli investitori ad assumersi rischi eccessivi, aumentando oltre ogni misura giustificabile il rapporto tra indebitamento e fondi propri. La deregolamentazione, congiunta alla formazione delle ingenti masse di risparmio in cerca di collocazione hanno spinto al ribasso i tassi d’interesse, contribuendo all’aumento oltre misura dell’indebitamento privato (soprattutto nel mercato immobiliare americano).
Tuttavia, sono molti gli economisti che non ritengono gli eccessi del settore finanziario la causa principale della crisi scoppiata nel 2007-2008; quest’ultima è ora considerata solo un sintomo da rimuovere attraverso una maggiore regolamentazione dei mercati finanziari, mentre la causa prima è rinvenuta nella “malattia sottostante”, la cui origine deve essere ricercata “negli elementi che, fin dai primi anni Ottanta, hanno alimentato la progressiva accumulazione di ‘squilibri globali’”. Nel 2007, questi squilibri hanno condotto l’economia mondiale verso una situazione di fragilità strutturale, dovuta soprattutto al fatto che gli Stati Uniti erano afflitti da un eccesso di domanda sulla produzione interna, cui si contrapponeva un deficit commerciale crescente; a complicare la situazione vi è stato poi il fatto che il deficit fosse finanziato dagli eccessi di risparmio che caratterizzavano altre regioni, come la Cina e altri Paesi dell’Est asiatico, dove l’assenza di un’adeguata protezione sociale e di un sistema finanziario affidabile motivava le imprese e le famiglie a dotarsi di alti livelli di risparmio precauzionale. Questi squilibri globali – sostiene Saraceno – si sono stentatamente compensati per tanti anni; ma le difficoltà sempre maggiori, a causa della crescente disuguaglianza distributiva interna ai Paesi integrati nell’economia mondiale, hanno dato luogo a un equilibrio globale rivelatosi fragile al momento della crisi.
Perché l’economi mondiale torni a uno stabile stato di normalità, occorre che gli squilibri finanziari interni (degli USA e dei Paesi dell’Est asiatico), approfonditi dalla crescente disuguaglianza distributiva, siano riassorbiti, rimuovendo innanzitutto gli effetti destabilizzanti determinati dal “trasferimento di risorse da poveri e classi medie ai ceti più agiati, vale a dire da chi spende in consumi la quasi totalità del proprio reddito a chi invece ne risparmia una parte consistente”; fatto, questo, che ha avuto (e che continua ad avere) due effetti negativi, emersi prepotentemente allo scoppio della Grande Recessione: un aumento dell’enorme massa di liquidità (che ha generato operazioni finanziarie speculative), e una cronica carenza di domanda interna.
Ma quale è stato il “motore” che ha alimentato, a partire dagli anni Ottanta, il processo di allargamento della disuguaglianza distributiva? La letteratura economica – osserva Saraceno – “ha evidenziato due forze, legate tra loro, che hanno spinto verso una distribuzione più diseguale, penalizzando in particolare la classe medio-inferiore”: la prima è stata la diffusione delle tecnologie informatiche, che hanno determinato scarti di salario crescenti tra lavoratori dotati di specializzazioni diverse; la seconda forza che ha portato alla disuguaglianza è stata la globalizzazione.
Nel loro insieme, gli effetti delle due forze, congiuntamente all’incremento dei comportamenti predatori delle élite dominanti, spiegano, in generale, l’aumento della disuguaglianza distributiva. A partire dagli anni Ottanta si è “messo in moto un circolo vizioso per cui l’eccessivo peso del settore finanziario ha causato disuguaglianza crescente e accumulazione di rendite nelle mani di élite; a loro volta queste risorse sono state reinvestite nella finanza sottraendo ossigeno all’economia reale”. A causa di ciò, i sistemi fiscali dei Paesi avanzati sono divenuti gradualmente meno progressivi e non più idonei a contrastare la disuguaglianza attraverso appropriate politiche ridistributive. Quali potrebbero essere le riforme strutturali idonee a ricondurre l’economia globale a un più equilibrato funzionamento? Le risposte sono diverse e incompatibili tra loro.
A parere di Saraceno, una prima riforma possibile, condivisa dai sovranisti di ogni colore, “sarebbe quella di ridurre l’integrazione, di ‘fermare la globalizzazione’, in modo da recuperare la capacità dello Stato-nazione di mettere in atto le proprie politiche fiscali”. Il limite che rende inattuabile tale riforma sta nel fatto che il rifiuto dell’integrazione equivarrebbe, di fatto, a “buttare il bambino con l’acqua sporca”; uscire dall’economia globale non potrebbe che peggiorare la situazione. La ricerca della soluzione, infatti, non può essere che globale e diretta a risolvere alla radice il problema dell’instabilità economica e sociale, per rilanciare “una crescita più bilanciata a livello nazionale e quindi su scala globale”, riducendo le “disuguaglianze tramite riforme strutturali necessariamente più complesse (e spesso in direzione opposta) di quelle proposte dagli alfieri […] della liberalizzazione dei mercati”. Un obiettivo, questo, che potrebbe essere perseguito agendo su due fronti.
In primo luogo, occorrerebbe ripristinare sistemi di tassazione più progressivi, per tornare a una pressione fiscale simile a quella degli anni Cinquanta del secolo scorso, quando si riteneva normale “che le grandi fortune contribuissero al benessere collettivo”, al fine di realizzare un’economia in crescita ed inclusiva. In secondo luogo, a livello europeo, bisognerebbe realizzare un coordinamento delle politiche di tassazione, per contrastare la “concorrenza fiscale e il dumping sociale, che sovente prendono la forma di forti riduzioni d’imposta sui redditi elevati e da capitale”; ciò consentirebbe di ostacolare il fenomeno dell’ottimizzazione fiscale, perseguita attraverso il “trasferimento dei profitti delle imprese multinazionali nei Paesi in cui il fisco è meno esigente”; un trasferimento che ha assunto dimensioni notevoli, tali da condizionare l’attuazione delle politiche economiche nazionali.
Al riguardo, Saraceno ricorda che un recente studio ha stimato in 600 miliardi di dollari l’ammontare dei profitti che sono stati trasferiti nel 2015 verso i “paradisi fiscali”. Nel Vecchio Continente, per contrastare il fenomeno dell’ottimizzazione fiscale è stata elaborata dalla Commissione europea una proposta che sinora non si è mai tentato di attuare; la proposta prevede, attraverso il consolidamento dei profitti delle filiali delle imprese multinazionali, la creazione di una base imponibile comune che – sottolinea Saraceno – potrebbe essere gestita centralmente nell’ambito di un bilancio comunitario rafforzato.
Nell’insieme, il ristabilimento della progressività dei sistemi fiscali, gli ostacoli all’ottimizzazione fiscale e il coordinamento internazionale volto a combattere l’elusione delle grandi multinazionali “potrebbero allentare la pressione sul ridimensionamento del welfare”, che ha contribuito all’aumento della disuguaglianza distributiva. Ma non si tratterà solo di ridurre la disuguaglianza tramite politiche ridistributive, in quanto il contrasto alla crescita delle disuguaglianza, secondo Saraceno, “dovrà necessariamente passare attraverso un ripensamento delle istituzioni che regolano i mercati, in particolare, ma non solo, il mercato del lavoro”.
Nel contesto globale in cui le economie nazionali si trovano ad operare – continua Saraceno –, la “priorità per la politica economica nei prossimi anni dovrà consistere nel reinventare un sistema di redistribuzione che riduca la tendenza all’accrescimento della disuguaglianza e quindi all’erosione […] di quel contratto sociale che nel dopoguerra era stato uno dei pilastri di crescita e benessere diffuso”. Ciò significa che occorrerà ricuperare quello Stato regolatore che nel dopoguerra ha garantito stabilità sociale e stabilità della crescita economica; si tratta di un ruolo che, per quanto sia difficile da svolgere in un mondo globalizzato, a causa del venir meno dei margini di autonomia decisionale dei singoli Stati, dovrà essere svolto attraverso la cooperazione, ormai unica via percorribile.
In altri termini, conclude Saraceno, se si vorrà tornare al contratto sociale del dopoguerra, occorrerà invertire la tendenza all’aumento della disuguaglianza; a tal fine i Paesi economicamente avanzati, in particolare quelli che fanno parte dell’Unione Europea, dovranno dotarsi di istituzioni in grado di coinvolgere i grandi patrimoni, il capitale e le imprese multinazionali, nel rilancio di uno stabile progresso sociale ed economico delle società attuali.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto sardo il 1 aprile 2020