di Isaia Sales
E’ indubbio che in questa crisi i rappresentanti delle Regioni hanno conosciuto un protagonismo che non ha paragoni con tutto il periodo precedente. E hanno portato avanti, in maniera aperta o sottotraccia un tentativo di spostare l’asse delle competenze legislative e amministrative a loro favore. Insomma, in queste settimane si è giocata anche una partita di potere e tra i poteri dello Stato. L’Italia si è mostrata nelle sue virtù e nei sui limiti, dei suoi cittadini e delle sue istituzioni, delle sue strutture di cura e dei suoi specialisti della salute, ma si può tranquillamente affermare che ad oggi la legittimazione del potere centrale è cresciuta mentre quella delle competenze regionali ne esce più ammaccata, anche nelle realtà in cui godeva di maggiore considerazione e mostrava maggiore sicumera nei propri mezzi e nelle proprie prerogative.
Si è evidenziato, cioè, che essere protagonisti, stare per televisione e sui social, assumere delle decisioni fondamentali per la vita dei cittadini non è sufficiente per trasformare automaticamente dei leader locali in leader politici nazionali o in leader morali del Paese. Tra visibilità e leadership c’è una distanza enorme; la visibilità c’è stata (e ci sarà) ma la capacità di leadership non si è vista affatto. Ho l’impressione che alla fine di questa tragedia il bisogno di un’autorità centrale dello Stato si rafforzerà ancora di più rispetto alla visione di uno Stato pluridecisionale, decentrato e in gran parte impotente. L’autonomia differenziata, e in genere ogni forma di contestazione/competizione con la potestà statale centralizzata, ha conosciuto in questa vicenda la sua più grande delegittimazione; e l’ha ricevuta sul campo proprio nelle Regioni che ne hanno rappresentato negli anni e nei mesi scorsi le istanze più radicali. Alla grande prova del coronavirus il sistema regionale ne esce malconcio, senza aver minimamente mostrato di essere più efficiente dello Stato centrale. Fontana, Zaia e De Luca, i tre presidenti di Regione che più sono stati visibili in queste settimane, (ma anche Bonaccini, Emiliano o Cirio) non hanno sovrastato la leadership di Conte né tantomeno si sono
neanche lontanamente avvicinati a quella morale di Mattarella : i laeder nelle grandi tragedie sono quelli che non trasmettono ansia e paura, che non scaricano su altri le responsabilità delle difficoltà che incontrano, ma provano a infondere fiducia mentre tutto quello che avviene attorno spinge allo sconforto; sono quelli che usano l’autorità per trasmettere forza a chi la sente venire meno. Infatti, anche in questa crisi si sono confrontate due modalità di essere delle leadership: quelle che investono sulle paure, le rappresentano e le trasformano in posizioni politiche, e quelle che invece provano a trasformare le paure in fiducia e in speranza. E la linea di differenza non è stata tra centrosinistra e centrodestra, tra Nord e Sud, ma tra centro e periferia, tra istituzioni centrali e regionali. Le istituzioni locali non hanno trasmesso rassicurazione ma ansia, non autorevolezza ma oscillazione tra diverse posizioni, non competenza ma improvvisazione. Anche se non è mancatala generosità, in particolar modo di diversi sindaci.
Nel Nord amministrato dalla Lega (Lombardia, Veneto e Piemonte) non si è scelto di parlare lo stesso linguaggio, o proporre e seguire la stessa strategia. All’inizio hanno provato i governatori prendere le distanze dalle decisioni del governo centrale, salvo poi ad invocarne l’azione unificante e disciplinante. E neanche la strategia del Veneto (più tamponi per circoscrivere i focolai e ridurre i ricoveri ospedalieri) che sembra aver dato finora migliori risultati, è stata fatta propria da tutte le amministrazioni regionali leghiste. Con Zaia che ad un certo punto si è scelto un ruolo più appartato in attesa di tempi migliori. E al Sud, dove si poteva mettere insieme una strategia comune per farne il retroterra non contagiato di un’Italia in ginocchio, si è pensato di operare ciascuno a modo suo, indebolendo nei fatti una valida strategia di contenimento. Andando più nel particolare, la Lombardia ha mostrato di non essere, alla prova dei fatti, quella assoluta eccellenza di cui tutti in Italia la accreditavano. Vedremo poi, quando si avranno maggiori elementi di valutazione a disposizione, cosa non ha funzionato nella catena di comando, se si sono manifestate deficienze strutturali di quel modello sanitario o una fragilità organizzativa più evidente nelle piccole strutture ospedaliere che nelle grandi. Certo, nessun sistema di assistenza è tarato sulle eccezionalità degli eventi, ma sono le condizioni eccezionali che ne tastano le capacità quotidiane. E il presidente Fontana non si è affermato come figura sobria e rassicurante, come sembrava nelle sue corde, ma come l’espressione fisica di chi ha perso la sicurezza nei propri mezzi e nelle proprie strutture e non riesce a nasconderlo.
La Campania, invece, nel giro di poco tempo, si è autorappresentata in maniera del tutto differente. Nei mesi scorsi, per sostenere la fine del commissariamento della sanità da parte del governo centrale, De Luca si era lasciato andare ad affermazioni davvero entusiaste sulle qualità del sistema sanitario regionale, affermando a più riprese che si erano raggiunti in alcuni settori “livelli svedesi” di assistenza, e dicendosi pronto a gestire la sanità in assoluta autonomia. Nei primi giorni della crisi si era trovato a proprio agio a dimostrare che le sue disposizioni erano più dure e opportune di quelle del governo centrale, trasformandosi nello spietato e arcigno censore di tutti i comportamenti leggeri degli “indisciplinati” suoi corregionali. Improvvisamente il tono duro (e sarcastico) verso i cittadini incivili si è trasformato in appelli ultimativi al governo centrale, lasciando intravvedere disastri imminenti per la mancata forniture e di apparecchiature alla “svedese” sanità campana. Dalla sicumera si è passati alle accuse di abbandono, dal sarcasmo alle profezie di sventure. E anche in periodi di angosce, dolori e lutti per tante famiglie, ha scelto la strada della comunicazione sarcastica e irridente. La strategia di De Luca è sembrata basarsi su due cardini: indicare nel cittadino “strafottente” e non rispettoso delle regole la responsabilità dei contagi; scaricare sul governo centrale la responsabilità nel caso il contagio si fosse esteso portando migliaia di persone a premere su strutture inadeguate. E mentre in altre regioni i presidenti hanno condiviso la visibilità con altri assessori, virologi, esperti, De Luca ha occupato la scena da solo, in totale solitudine, senza avere vicino nessun assessore.
Insomma, ha trasmesso al tempo stesso (al di là delle sue stesse intenzioni) severità sfottente, angoscia e impotenza. Non esattamente quello che fece Churchill nella seconda guerra mondiale, non quello che fanno i leader nei momenti tragici.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Mattino il 31 marzo 2020