di Vincenzo Vita
Domani, domenica 23 febbraio, si terrà a piazza del Popolo di Roma una manifestazione contro l’estradizione negli Stati Uniti di Julian Assange, creatore della fondazione WikiLeaks. A quest’ultima si devono informazioni che altrimenti non avremmo mai conosciuto. Basti rivedere i giornali on line globalist e l’antidiplomatico dello scorso aprile.
Non sapremmo degli archivi di Guantanamo, con i dettagli sui prigionieri e sulle modalità di detenzione (ivi compresa la tortura) di persone anche solo sospettate di essere votate al terrorismo; delle notizie segrete sulle guerre in Afghanistan e in Iraq; del cablegate, ovvero le iniziative intrusive della diplomazia di Washington; e non sapremmo dei video filtrati attraverso il soldato (che nel frattempo ha scelto il suo essere femminile) Bradley-Chelsea Manning, che mostrano gli elicotteri Apache sparare contro obiettivi civili; delle operazioni di sorveglianza di massa dell’intelligence; degli accordi di libero scambio (come il Transpacific of Economic Cooperation, Ttp), mai resi noti prima; dei lati segreti di diverse società multinazionali; dello spionaggio globale come strumento geopolitico (con le intercettazioni – tra le altre – dei telefoni di Angela Merkel o dell’ex segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki-Moon); delle migliaia di mail inviate dal comitato nazionale del partito democratico contro la candidatura di Bernie Sanders a favore di Hillary Clinton; dei sofisticati modelli di controllo (malware, virus trojan, e così via) e di Vault 7, la più grande pubblicazione di documenti della Central Intelligence Agency (Cia), in base alla quale ognuno di noi potrebbe essere “attenzionato”.
Quindi, senza Assange il flusso dei saperi sarebbe stato ben più povero. Accanto a lui vanno ricordati l’ex tecnico della Cia Edward Snowden e Manning, l’ex militare statunitense accusato di aver divulgato migliaia di documenti riservati. Al di là di ogni altra valutazione, siamo di fronte a figure che hanno reso pubbliche pratiche illegali di governi e servizi segreti.
In Italia, a parte una netta presa di posizione della Federazione della stampa (divenuta la linea dell’organismo internazionale dei giornalisti) lo scorso aprile, molto silenzio. A rompere il disinteresse – salvo l’impegno civile di associazioni e di attivisti – proprio la manifestazione di domenica, alla vigilia della prima udienza del processo per l’estradizione negli Stati Uniti di Assange, che rischia così 175 anni di detenzione. L’evento prevede le immagini delle sculture di Assange, Snowdewn e Manning, come vuole l’opera dell’artista Davide Dormino Anything to say? (oggi a Oslo), sulla quale si alterneranno coloro che vorranno prendere la parola.
Ricordiamo che il giornalista australiano si era rifugiato per sette anni all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, finché non è stato rinchiuso in isolamento nel carcere di Belmarsh a Londra.
Tra l’altro, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha approvato la risoluzione 2317, in cui si chiede il rilascio immediato di Assange, ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Il parlamento italiano prederà qualche posizione? Certamente, scriveva con acume e lungimiranza su il manifesto del 28 novembre dell’anno passato Benedetto Vecchi, la rete è molto cambiata nel frattempo. Mentre il capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza ha reso la patologia svelata da WikiLeaks in fisiologia dell’universo comunicativo. Ma a maggior ragione Assange deve tornare libero.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 19 febbraio 2020