di Roberto Saviano
Qualche giorno fa ho avuto la fortuna di ascoltare un grandissimo pezzo di giornalismo, una vera testimonianza. A Propaganda Live ho ascoltato la voce di Emanuele Macaluso (quasi novantasei anni di vita) accompagnata dalle domande di Diego Bianchi. È stata un’esperienza alta, piena di freschezza e ottimismo nel futuro: la speranza nel possibile come regola di vita, che ha accompagnato Macaluso fin dal tempo dell’inizio del suo cammino politico nel 1941, a diciassette anni, quando iscriversi al Partito Comunista significava (anche) mettere in conto la morte. Il racconto della sua vita politica nata al fianco delle lotte bracciantili, il suo comizio a Portella della Ginestra dopo la strage e il suo arrivo, diciotto anni dopo, alla segreteria nazionale guidata da Togliatti.
Un’emozione immensa. Un volo d’angelo su un intero secolo e su una storia che ha innalzato l’uomo, che ha reso degne le sue condizioni di lavoro e che ha lottato, con durezza, per la democrazia e i diritti sociali. Il migliorismo come ricerca di condizioni di vita migliori. Ancora oggi, nella sua casa di Testaccio, Macaluso conserva quella precisa lucidità che lo fa sentire sicuro dentro la sua identità politica, adattata ai tempi e adeguata alle nuove sofferenze. Ed è per questo che alle soglie dei novantasei anni, mentre parlava, io rivedevo la tensione del diciassettenne Macaluso, che decide di mettere la propria vita al fianco dei più deboli e degli ultimi, dei siciliani, dei braccianti siciliani, dei poveri siciliani.
Macaluso ha la lucidità che nessuno oggi ha nella politica italiana e individua nei migranti – o meglio in coloro che sono migrati, che sono scampati alla emigrazione e oggi sono in Italia, in Europa – i più deboli, gli ultimi e che, anche prima che alla politica, dovrebbero essere una priorità del sindacato, altrimenti la miopia, la rozzezza, del “prima gli italiani” contaminerà anche quel mondo. Sia chiaro, la sofferenza del mondo produttivo italiano, di quello che ne rimane, è enorme. Come non pensare al crimine che si compie ogni giorno veicolando nei media il terrore della pandemia da coronavirus, smorzando così la voce, il grido di aiuto, lanciato dagli operai della Whirlpool di Napoli, dell’Ilva di Taranto, accompagnato da quello dei cittadini di Tamburi e da quello della Terra dei Fuochi. Quel grido non perde intensità, poiché il negazionismo non è solo prerogativa degli antisemiti, ma anche di chi è intento a lustrare vetrine, in attesa di eterne, continue competizioni elettorali.
Ma i più deboli dobbiamo individuarli in coloro i quali non sono neanche cittadini e ai quali il nostro Paese, e buona parte dell’Europa, vogliono negare il diritto di esserlo. Non siete morti, dunque accontentatevi di essere schiavi. Ebbene sì, schiavi. Schiavi si è quando ti è negata la possibilità di ogni consapevolezza di te stesso, di ciò che sei, da solo e assieme agli altri che come te soffrono le stesse pene. Macaluso in poche frasi dice quello che nel centrosinistra di governo e di potere nessuno è in grado di dire da trenta anni. Magari per opportunismo politico, ma io credo che dopo tutto questo tempo si tratti soprattutto di analfabetismo, non altro. Macaluso dice che i poveri, i più deboli debbono essere accompagnati ed elevati, prima dal sindacato e poi dalla politica, poiché solo la consapevolezza del sé, e dei propri diritti, ne farà dei cittadini. Macaluso è lì, come Yoda ai suoi Jedi (grazie a Marco Damilano per quella bellissima immagine), a dire che il tema della politica italiana oggi è ancora, e rischia di essere per sempre, la Questione Meridionale.
E lo dice dopo una tornata elettorale che ha comunicato in maniera espressa che del Meridione alla politica, a tutta la politica, non frega assolutamente niente. L’unico – nelle parole di Macaluso e, per quel che può valere, nelle mie – a porsi il Problema Meridionale con preparazione e generosità è Peppe Provenzano, il ministro per il Mezzogiorno, che avrebbe maggiore credibilità come Presidente del Consiglio dell’avvocato foggiano trasferitosi a Roma, che sta lì ad assicurare che nulla cambi e che il Mezzogiorno muoia di emigrazione e mancanza di investimenti, ma soprattutto di visione, e di cecità, nella atavica incapacità di vedere la sofferenza. E noi non abbiamo l’incrollabile ottimismo nel futuro del gigante Emanuele Macaluso che, alla domanda di Zoro «cosa possiamo fare?», risponde secco: «Cercare quello che di possibile bisogna fare e farlo. È poco? Bisogna farlo. È molto? Bisogna farlo. Ma quello che è possibile fare, per la società e per il mondo del lavoro, bisogna farlo».
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale L’Espresso il 10 febbraio 2020