Salari, i grandi sconfitti del conflitto sociale

27 Novembre 2019 /

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di Marta e Simone Fana
Oggi in Italia si guadagna meno di trent’anni fa, a parità di professione, a parità di livello di istruzione, a parità di carriera. Vale per tutti, tranne per quella minoranza che sta in alto. Non è una casualità. La questione salariale nel nostro paese, ma non solo, è un pezzo di storia politica che può essere raccontata con la retorica di chi continua a comandare o dalla viva voce di chi quel comando lo subisce sulla propria carne viva.
Abbiamo quindi deciso di ripercorrerla, connettendo il filo che lega il passato con il presente, dove il futuro appare una proiezione di un tempo lontano, ma il cui volgere non è affatto scontato. Il primo dopoguerra e la crisi internazionale di metà anni Settanta dove l’avvicendarsi del conflitto sociale portò a risultati diversi, fino ai giorni nostri, in cui si consolida anche grazie al processo di flessibilizzazione la strategia aziendale di protezione dei profitti e gestione del ciclo economico, facendo del costo del lavoro un fattore variabile su cui scaricare il rischio aziendale e le fluttuazioni della domanda. Ma è grazie all’ingente apparato retorico e ideologico, a corredo di tale offensiva, che i salari tornano a essere l’agnello da sacrificare in nome dell’interesse aziendale, eretto a unico interesse nazionale. Se ne convinsero persino i sindacati, accettando non soltanto di congelare i salari ma anche di assestarsi lungo una dinamica assertiva alle richieste del mercato.
Nonostante tutto questo, le aziende continuano tenacemente a esigere sconti fiscali, sgravi e salari più bassi, l’unica costante delle riforme: non la competitività, non la produttività, non il benessere diffuso, ma la svalutazione del lavoro. Siamo oggi un paese che conta il 14% di forza lavoro in condizioni di povertà lavorativa, e in cui il 30% dei giovani occupati non guadagna più di 800 euro al mese (dati Inps). Quando la frammentazione interna al mondo del lavoro non è sufficiente a contenere il conflitto sociale, bisogna trovare comunque argomenti che spostino il centro dell’attenzione dalle sue vere cause, da chi sfrutta e decide di sfruttare. Da qui il mito della tecnologia che separa i bravi, meritevoli di salari elevati, da quelli poco produttivi, che invece non hanno diritto che a salari da fame. Ma, anche questa volta, la teoria a monte di una retorica sempre più diffusa si rivela, quando non del tutto inefficace, parziale e incompleta a spiegare i divari salariali esistenti.
Abbiamo messo a fuoco la questione salariale e la dinamica economica come esito dei rapporti di forza tra le classi sociali, attingendo a basi teoriche alternative al pensiero dominante e all’ausilio di risultati empirici di studi e ricerche accademiche e istituzionali. Senza però sottrarci al dibattito contingente: quello che vede la possibilità dell’introduzione del salario minimo legale anche nel nostro paese. Consapevoli però che il salario minimo non è positivo di per sé, ma lo diventa quando riesce a incidere e migliorare le condizioni di tutti i lavoratori, partendo dai tanti, troppi, che oggi vivono in stato di povertà pur lavorando regolarmente nel rispetto dei contratti collettivi – anche rappresentativi – vigenti. È uno strumento capace di mettere il bastone tra le ruote a chi pensa di poter rimanere a galla a colpi di esternalizzazioni e lavoro in affitto. Un risultato non scontato, ma che dipende da quanto siamo pronti a strappare ancora una volta al fronte padronale, ad attaccare su quel che ci spetta non accontentandoci di quello che sono disposti a regalarci, senza timore di indebolire alcuna struttura intermedia.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidianoe il 3 novembre 2019. È un estratto del libro

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