L'appello di Zerocalcare: "Non possiamo voltare le spalle ai curdi"

8 Ottobre 2019 /

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di Gabriella Colarusso
«Quando senti “Ratatata”, è Isis. Quando senti “Tum.Tum.Tum”, siamo noi». Era il 2015, i fanatici dello Stato Islamico davano l’assedio a Kobane, la città simbolo della resistenza curda, e Michele Rech da Rebibbia, l’artista Zerocalcare, era a pochi chilometri da lì, prima a Mesher poi fino Ayn al-Arab, nel cuore del Rojava (una federazione del Nord-Est della Siria che di fatto è autonoma ed è controllata dai curdi, ndr). Aveva deciso di andarci, al confine turco-siriano, per capire, oltre la guerra, quello che i curdi stavano costruendo: «Un sistema di vita e di convivenza che qua non racconta mai nessuno perché fa più click uno che sega la capoccia a un altro», scrisse.
La storia di una guerra infame, e della resistenza democratica di un popolo, è diventata una graphic novel di culto, Kobane Calling, un libro, uno spettacolo. «Mi sembra incredibile che il Rojava possa finire di nuovo nelle mani dell’Isis, il pelo sullo stomaco dei nostri politici e il fatto che nessuno gliene chieda conto», dice Rech nelle ore in cui Trump annuncia di voler ritirare le truppe dalla Siria, abbandonando i curdi al loro destino, con il rischio di lasciare spazio a una nuova guerra tra turchi e curdi e una recrudescenza terroristica.
A che cosa ha pensato quando ha letto del via libera americano a Erdogan per entrare nella Siria del Nord?
«Alle case delle donne che oggi ci sono in ogni municipalità del Rojava e che combattono la violenza sulle donne: c’erano anche nel cantone di Afrin due anni fa, prima che entrassero i militari turchi. Ora non ci sono più. I turchi hanno distrutto tutto quanto i curdi avevano costruito, hanno di fatto realizzato una sostituzione demografica e consegnato il territorio di nuovo in mano ai jihadisti. L’idea che tutto il resto del Rojava possa fare la stessa fine e ricominciare con la sharia per me è incredibile».
La libertà delle donne, ma non solo, dice: cosa ha visto nel Rojava, questa utopia possibile che inseguono i curdi siriani?
«L’unico esperimento di democrazia nel giro di decine di migliaia di chilometri quadrati. Quando Assad ha cominciato a perdere il controllo della Siria del nord, la popolazione, che è fatta di curdi ma anche di assiri, turkmeni, yazidi, arabi, si è data una forma di autogoverno che è basata sulla convivenza e la libertà. Hanno abolito i matrimoni combinati, i matrimoni tra ragazzini, hanno stabilito che tutte le amministrazioni venissero gestite da un uomo e da una donna insieme. Nessuna donna può essere assoggettata agli ordini di un uomo. Parlano di ambiente, ecologia, stanno studiando come sviluppare le energie pulite e usare il petrolio – e in quella regione ce n’è tanto, che fa gola a molti – solo per gli usi bellici. Hanno fatto della convivenza religiosa il fondamento della loro organizzazione».
Se dovesse raccontarla con una storia?
«Le strade dei cantoni curdi erano un mosaico di culture e religioni. A Tell Abyad il sindaco era un turkmeno col turbante e la barba bianca, un uomo di modi e cultura tradizionale, la co-sindaca era una curda di 25 anni senza velo. Questo è il Rojava, un esperimento avanzatissimo non solo rispetto a quelle zone, ma anche alle nostre, secondo me».
Per Erdogan sono terroristi.
«Dovremmo chiederci chi vogliamo scegliere come alleati: chi ha sconfitto l’Isis e sta provando a costruire un sistema di democrazia, dimostrando che anche in quel territorio ci può essere convivenza di diversi popoli, che le donne possono avere un ruolo primario nella società ed essere libere, o se il nostro alleato deve essere un regime come quello turco che incarcera decine di migliaia di oppositori politici».
“Tradire i curdi sembra un diritto concesso a tutti”, disse una volta il giornalista americano Christopher Hitchens. Kobane resisterà?
«Non credo che si siano mai fatti grandi illusioni sul ruolo degli americani in quella regione. Hanno molto chiaro che le loro alleanze sono con i popoli, non con i governi. Gli amici dei curdi sono le montagne, non sono quasi mai gli Stati. Ma questo non significa che dobbiamo stare zitti: i curdi hanno combattuto e sconfitto l’Isis, difendono la democrazia, non possiamo voltargli le spalle, lasciarli soli».
Questo articolo è stato pubblicato da Repubblica il 7 ottobre 2019

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