Partito il governo Conte 2: Salvini ha perso ma…

10 Settembre 2019 /

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di Salvatore Romeo
Il governo 5 Stelle-PD si appresta a nascere con tutte le difficoltà e i travagli che caratterizzano l’ultimo miglio. Quale che sia la sua composizione o il suo profilo programmatico, il nuovo esecutivo si troverà davanti uno scenario economico complicato: sarà in grado di fronteggiarlo o finirà per portare acqua al mulino della destra? E quale dovrebbe essere il ruolo della sinistra in questa congiuntura?
Nuova crisi e ristrutturazione
Nella nuova crisi che si scorge all’orizzonte l’elemento politico sovrasta e determina quello economico. La guerra commerciale scatenata dagli USA contro Cina e Unione Europea ha già provocato conseguenze rilevanti. La recessione della manifattura tedesca – che potrebbe acuirsi con gli ulteriori dazi sugli autoveicoli annunciati dalla Casa Bianca – va ripercuotendosi su tutti i paesi che gravitano intorno al cuore produttivo dell’Unione, Italia in primis. È a rischio il sistema integrato di fornitura e subfornitura emerso negli ultimi decenni come risultato del particolare indirizzo impresso al mercato comune dalla strategia mercantilista perseguita dalla Germania. È a questo che sembra puntare Trump per assestare un colpo decisivo alla UE e al suo paese leader.
Di fronte a questo scenario che reazione avranno i ceti produttivi italiani (e i gruppi parassitari ad essi legati)? Sarà questo nodo a condizionare l’agenda del prossimo governo molto più delle dichiarazioni programmatiche delle forze politiche. Molto dipenderà dalle decisioni che assumeranno le classi dirigenti tedesche. In questi giorni si parla di un grande piano di investimenti che Berlino si appresta a varare per fronteggiare la recessione. Stando ai titoli degli interventi (sostanziosi finanziamenti per formazione, ricerca & sviluppo, conversione ecologica delle produzioni) più che di misure per il rilancio della domanda interna, si tratta di politiche finalizzate a irrobustire il sistema produttivo. Si prospetta un’intensificazione dei processi di ristrutturazione avviati dopo la Grande crisi del 2008, con ricadute inevitabili sui subfornitori, che sarebbero tenuti ad adattarsi.
I processi di adattamento implicano però sempre una selezione. Tornando all’Italia, si assisterebbe a un rinnovato sforzo di efficientamento da parte delle imprese integrate nello spazio europeo a trazione tedesca: una sfida che lascerebbe sul campo alcuni operatori e tenderebbe a dilatare il divario – esploso negli ultimi anni – con le attività “marginali” legate soprattutto al mercato interno. A loro volta queste tensioni andrebbero ad approfondire il ruolo ancillare dello Stato nei confronti del capitale (il fulcro del modello neoliberista): ora questo ora quel gruppo si farebbero avanti per chiedere ai poteri pubblici sostegni, sussidi, protezioni. Su questa via potrebbero dunque riemergere vecchie e nuove contraddizioni, poiché la crisi stessa renderebbe più stretti i margini di manovra della politica economica. Se su alcuni temi ci potrebbe essere convergenza fra interessi diversi (sgravi fiscali, autonomia differenziata), di fronte a richieste più particolari il governo sarebbe costretto a scegliere – per esempio, fra il sostegno alle politiche di innovazione tecnologica (sul modello della calendiana “Industria 4.0”) e l’apertura di cantieri locali -, rischiando di scontentare ora gli uni ora gli altri.
Il caos politico
Quale mediazione saranno in grado di costruire le parti della nuova maggioranza è ancora presto anche solo per intravederlo. Al momento si può solo registrare la grande confusione che domina il dibattito politico. Il nuovo esecutivo sembra sorgere su basi fragili, scosse dalle tensioni che attraversano la coalizione e i partiti che la compongono. La leadership di Di Maio è molto meno salda che in passato, e nei 5 Stelle si è ormai manifestata una dialettica a tratti rissosa, che l’azione di governo rischia di esasperare.
Nel PD il fuoco arde sotto la cenere, ma costituisce un pericolo persino maggiore per la stabilità della coalizione. Di fatto Zingaretti ha subito le scelte cruciali delle ultime settimane: sotto i suoi occhi si è palesata una riedizione spuria della vecchia maggioranza (con la centralità dell’asse Renzi-Franceschini); per non finire ai margini del suo stesso partito, il segretario ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, ma la sua leadership – già traballante – ne è uscita ulteriormente indebolita. Il PD resta un partito irrisolto, pronto a esplodere da un momento all’altro.
C’è infine un terzo attore: Giuseppe Conte, inaspettatamente messo sugli allori dalle cancellerie europee e dall’inquilino della Casa Bianca. Ad essere apprezzata dai nostri alleati è forse soprattutto la duttilità del premier, la sua capacità di interpretare coerentemente il ruolo subalterno che l’Italia riveste nello scacchiere globale. Sia come sia, presentandosi come garante della collocazione internazionale del paese – e sfruttando la popolarità acquisita nelle ultime settimane e la debolezza dei due alleati – Conte potrebbe provare a ritagliarsi un ruolo più incisivo nella direzione del governo, soprattutto ora che non deve più fronteggiare un alter ego ingombrante come Salvini. Tuttavia i contrasti interni e, soprattutto, quelli (crescenti) fra le due sponde dell’Atlantico potrebbero alla lunga trasformarlo in un manzoniano vaso di coccio.
Si prospetta dunque un governo ad alta tensione, che farà fatica a rispondere alle pressioni di diverso tipo che verranno dagli strati di vertice della società italiana e a ricomporre i conflitti che si apriranno al loro interno. Anzi, proprio nella riottosità della nuova maggioranza i pezzi sparsi della frastagliata borghesia nostrana potrebbero trovare occasioni per rilanciare le rispettive rivendicazioni, trovando sponde favorevoli nei vari attori della contesa, contribuendo così ad accentuare il caos. In queste circostanze gli interventi a favore dei gruppi subalterni rischiano di passare completamente in secondo piano. Un governo del genere, ad elevato tasso di entropia, potrebbe preparare il terreno al ritorno in pompa magna di Salvini (da troppi dato per vinto) come fautore di un nuovo ordine fra le diverse frazioni del capitale.
E la sinistra?
Dal punto di vista della sinistra variamente collocata, l’operazione in atto dovrebbe destare più di una perplessità e suggerire prudenza. Di fatto si arresta – in maniera forse permanente – la riforma del PD, condizione necessaria (ma non sufficiente) per rimettere in campo una prospettiva progressista in cui la sinistra possa giocare una parte non marginale. Ma soprattutto viene rimandata a data da destinarsi una riflessione collettiva sulle dinamiche che stanno attraversando il mondo e la società italiana, e un ripensamento del ruolo della sinistra stessa in rapporto a quegli sconvolgimenti.
L’esaltazione per la sconfitta (tattica) inflitta alla “bestia” rischia di indurre gli attori di questo campo a trascurare i loro clamorosi ritardi, distogliendoli ancora una volta dall’enorme sforzo che sarebbe necessario per comprendere e contrastare il salvinismo nelle sue basi culturali e sociali. Pensare che questo compito possa essere svolto da un governo che nasce con le premesse di cui si è detto è un’illusione che potrebbe costare cara.
Allo scarso senso critico di una parte della sinistra non si può tuttavia rispondere con l’errore opposto, cioè il giudizio indifferenziato. L’allontanamento di Salvini dal Viminale avrà delle conseguenze. Verosimilmente con la nuova maggioranza il discorso politico assumerà toni diversi e si estenderà a temi rimasti fino ad oggi sullo sfondo; potrebbero riaprirsi al contempo alcuni margini di agibilità democratica messi in discussione negli ultimi mesi. Nelle valutazioni andrà esercitata dunque l’arte gesuitica del “discernimento”; andranno colte tutte le occasioni che eventualmente si presenteranno per favorire sbocchi progressivi – partendo tuttavia dalla consapevolezza che le contraddizioni più evidenti riguarderanno principalmente i gruppi dominanti e che comunque la capacità della stessa sinistra “sociale” (movimenti e sindacati) di incidere nei rapporti di forza è oggi quanto mai limitata.
Ma soprattutto dovrà essere avviato quel lavoro – necessariamente di lunga lena – di comprensione delle coordinate storiche in cui ci troviamo e di riconquista di un nostro campo sociale che ad oggi manca drammaticamente. La costruzione di forme adeguate di socialità politica (in senso ampio, come cura degli interessi collettivi) e di organizzazione della ricerca culturale dovranno essere i fari della nostra iniziativa per un tempo non breve. Insomma, va messo il fieno in cascina perché “l’inverno sta arrivando”.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online il 4 settembre 2019

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