di Felice Roberto Pizzuti e Roberto Romano
I caratteri della crisi di governo italiana risentono della fase di transizione economico-sociale resa manifesta dalla crisi iniziata nel 2008 nella generalità dei paesi occidentali e poi sviluppatasi con modalità specifiche in ciascuno di essi. Un aspetto centrale di questa transizione riguarda gli equilibri tra i mercati e le istituzioni che già molto erano cambiati, a favore delle seconde dopo la prima Grande Crisi dei mercati nella prima metà del Novecento, e poi in senso opposto con l’avvento del Neoliberismo a partire dai successivi anni Ottanta.
Se si guardasse alle vicende in corso nel nostro paese almeno con un occhio in questa prospettiva, e meno ai possibili organigrammi ministeriali – e altrettanto si potrebbe fare per capire meglio le politiche di Trump e le guerre commerciali che ha avviato, le difficoltà della costruzione dell’Unione Europea e i connessi peggioramenti della crescita e della distribuzione del reddito, la maggiore instabilità degli equilibri politici nazionali e dei rapporti internazionali -, allora forse si potrebbe parlare con più cognizione di causa di “governi del cambiamento”. Perché in effetti questi certamente sono necessari. E così facendo ci potremmo risparmiare molto chiacchiericcio fuorviante.
Una questione generale con risvolti pratici immediati, che richiede attenzione prioritaria nel cercare una soluzione stabile e progressiva all’attuale crisi politica e al declino pluridecennale del nostro paese, è il funzionamento della macchina pubblica e la sua capacità d’interagire efficacemente con i limiti dei mercati.
Occorre rendere più efficiente l’intervento pubblico con la consapevolezza che ciò richiede anche maggiori risorse umane e finanziarie. Diversamente, la pubblica amministrazione, con il suo personale diventato anche troppo vecchio per i reiterati blocchi del turnover, implode, diviene ingovernabile e di peso per lo sviluppo del paese. Sebbene molti si ostinino a sostenere che spendiamo troppo, va ricordato che la spesa pubblica italiana, al netto del servizio del debito (che per circa l’80% è detenuto da italiani; ma questo aspetto lo rimandiamo), è tra le più basse a livello europeo. La così detta spending review potrà opportunamente ridurre ancora l’esistenza di sprechi, ma le risorse recuperate dovrebbero essere reindirizzate nella spesa pubblica.
Se con la prossima manovra economica si vuole avviare il “cambiamento” a favore di crescita ed equità, occorre essere consapevoli che tra clausole di salvaguardia, spese improrogabili e misure una tantum già delineate, gli spazi operativi sono molto limitati.
In questo senso, destinare 23,2 miliardi a reiterare il blocco dell’aumento dell’IVA nell’ambito di una manovra che, verosimilmente, avrà una dimensione complessiva di 30-35 miliardi, è una scelta niente affatto scontata, come invece viene presentata.
Una revisione delle aliquote settoriali, unita ad una riforma dell’imposizione sul reddito (aliquote, scaglioni, deduzioni e detrazioni) potrebbe ricanalizzare il prelievo salvaguardando i ceti meno abbienti e penalizzando i settori più inquinanti.
D’altra parte, anche il blocco dell’IVA implica sottrarre ingenti risorse alle imprese e alle famiglie che potrebbero essere impiegate in modo più efficiente e mirata rispetto sia alla qualità e alla quantità della crescita sia alla distribuzione del reddito che nel nostro paese sta peggiorando più che nella media europea. Si aggiunga che un leggero aumento dell’inflazione (settorialmente controllata, non una tassa occulta sui lavoratori) contribuirebbe a ridurre l’incidenza del debito pubblico.
Un altro punto su cui occorre riflettere sono le politiche sociali. Nella previdenza è necessario mettere in sicurezza tutti quei giovani che non matureranno un adeguato numero di anni di contributi per conseguire una pensione dignitosa. Disinnescare la bomba sociale che sta maturando, riconoscendo una contribuzione figurativa (che non impatterebbe sugli attuali equilibri del bilancio pubblico) ai disoccupati involontari, contribuirebbe da subito a ridurre l’instabilità che pregiudica le condizioni di vita, i consumi e gli investimenti.
Attualmente, dei circa 170 miliardi di risparmio previdenziale gestito dalla previdenza complementare, circa il 70% viene investito all’estero (dove finalmente s’incontra con i nostri giovani più formati che non trovano lavoro in Italia, sic) e solo circa l’1% va alle nostre imprese. È necessario incentivare l’impiego di questo risparmio a favore dello sviluppo del nostro paese, coinvolgendo lo Stato, le imprese e i lavoratori.
Nella sanità e nell’istruzione la nostra spesa pubblica è nettamente inferiore a quelle medie europee e ciò pregiudica non solo le attuali condizioni economico-sociali, ma anche le loro prospettive. Gli ammortizzatori sociali negli ultimi anni sono stati migliorati, ma vanno meglio organizzati e raccordati al mercato del lavoro che risente delle controriforme dei passati decenni causa di grande precarietà individuale e sociale.
Occorre dotarci di una politica industriale degna di questo nome. Gli aiuti alle imprese non producono i benefici attesi. Industria 4.0 ha alimentato la domanda di beni strumentali, ma in questo settore la bilancia commerciale registra un saldo negativo con la Germania: gli investimenti delle nostre imprese hanno generato maggiori importazioni. E’ necessario ridisegnare gli aiuti pubblici e sostenere maggiormente la ricerca coinvolgendo il sistema universitario; si migliorerebbe il motore del sistema economico-sociale nazionale, riuscendo ad utilizzare anche i tanti giovani che pur a fatica riusciamo a formare ma che sono costretti ad emigrare perché non trovano impieghi adeguati in Italia.
Negli ultimi anni il nostro Meridione ha visto aumentare le sue differenze negative economico-sociali. Il progetto delle autonomie regionali non potrebbe che accentuare questo trend; il problema che si pone non è solo di solidarietà nazionale ma di sviluppo per l’intero paese. Quando in Germania unificarono l’Est e l’Ovest decisero di riconoscere pari valore alle rispettive valute che pure avevano una rilevanza economica diversissima; si trattò di una scelta non solo solidaristica, piuttosto fu il presupposto per ricostruire la grande Germania anche dal punto di vista economico e politico (come è accaduto).
Se queste politiche dovessero peggiorare di qualche decimale nell’immediato il bilancio pubblico, anche l’UE – che va convintamente sostenuta, ma che non potrà più ignorare i risultati fallimentari sempre più evidenti delle politiche di bilancio finora seguite e i problemi di crescita che si stanno ponendo anche in Germania – non potrebbe ignorarne i vantaggi prospettici.
Questo articolo è stato pubblicato da Sbilanciamoci.info il 29 agosto 2019