I calcoli elettorali dei soliti gattopardi

19 Agosto 2019 /

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di Salvatore Settis
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”: le parole che Tomasi di Lampedusa pone in bocca al suo Tancredi son passate in proverbio, diventate motto quasi-araldico d’ogni trasformismo, e parole come gattopardesco sono entrate nel lessico politico anche fuori d’Italia. “Che tutto cambi!” fu il motto del governo “del cambiamento”, ora negli spasimi di una prevedibile agonia. Qualcosa, infatti, cambiò: le facce e le appartenenze di uomini e donne al governo. Molto altro, invece, rimase e rimane com’era. Per esempio, il vizio di mutare le etichette (i nomi delle cose) e non la sostanza. Per farsi prendere sul serio, i gialloverdi escogitarono il “contratto” di governo, come se chiamarlo, secondo l’uso, “programma” fosse già denunciarne l’inania; e intanto fingevano di ignorare l’ovvio precedente, il “contratto con gli italiani” firmato da Berlusconi nel 2001 a Porta a porta davanti al notaio Bruno Vespa.
Giuseppe Conte, nel suo discorso d’investitura, citò la Costituzione cinque volte, ma ben nove volte il “contratto di governo”, presentandosi come “garante dell’attuazione del contratto per il governo del cambiamento”. Da questo e altri infortuni (Il Fatto, 8 giugno 2018) Conte si riscatterà se, come è da sperare, persisterà nell’intenzione, costituzionalmente impeccabile, di portare in Parlamento la crisi innescata da Salvini. Questo sì che sarebbe un cambiamento, rispetto alla pretesa di Salvini di imporre a Conte le dimissioni senza passare per un voto di sfiducia, cioè facendo proprio “tutto com’era”, cioè come quando Enrico Letta si dimise senza presentarsi alle Camere, su mera ingiunzione di Renzi.
Tutto “rimane com’è” anche su un punto essenziale del costume politico, la furbesca opzione per promesse vaghe, dizioni ambigue e sfuggenti, pure mediazioni verbali tra posizioni inconciliabili, con lo scopo non di accordarsi sul bene comune del Paese, non di concordare un reale compromesso, ma di rimandare il più possibile, senza risolverlo, il pubblico emergere di un sostanziale contrasto. Tale è il caso del Tav, dove la ribadita fedeltà dei 5S al loro punto di vista ha di fatto innescato la crisi. Ma che cosa mai voleva dire il “contratto”, proclamando “nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia, ci impegniamo a sospendere i lavori esecutivi e ridiscuterne integralmente il progetto”?
Pesate col bilancino, queste parole (come quelle di un oracolo delfico) dicono tutto e il contrario di tutto. “Funzionano” finché il nodo non viene al pettine, poi tutto salta. E sarebbe facile rileggere sotto questa prospettiva l’intero “contratto”, spigolandone altri esempi. O ponendosi una domanda più radicale: quando vi siano insanabili contrasti fra due alleati di governo, davvero la miglior soluzione è “una cosa a te, una cosa a me”? Per esempio, a te il reddito di cittadinanza, a me il decreto Sicurezza? O invece questo modo di affrontare i problemi del Paese ricalca il vecchio, invincibile cerchiobottismo che da decenni, senza alcun cambiamento, affligge la nostra politica?
Ma nel Gattopardo non c’è solo quella frase sul cambiamento che non cambia nulla. Ce ne sono altre, meno famose ma non meno penetranti, per esempio questa: “La voluttà di gridare lo avevo detto è la più forte che creatura umana possa godere” (III capitolo). E a questa tentazione, confesso, io non so resistere, anche se so benissimo che, su questi temi, molti altri possono “gridare lo avevo detto”. Sul Fatto dello scorso 20 luglio scrivevo che M5S e Pd stavano per spiaccicarsi insieme come moscerini contro il parabrezza della Lega: un matrimonio forzato, in articulo mortis.
Facile profezia, d’accordo. Ma della stessa ipotesi, vista invece come la ricerca di un accordo programmatico, avevo parlato all’indomani delle elezioni (sul Fatto del 10 marzo 2018), invocando l’unico vero cambiamento di cui il Paese abbia bisogno, una rigorosa attuazione della Costituzione. La stessa banale idea, esplorare la possibilità di un accordo programmatico tra sinistra e M5S, avevo proposto in due articoli all’indomani delle elezioni politiche del 2013, sulla Repubblica del 3 marzo e del 25 marzo 2013, oltre che in un appello del 9 marzo firmato anche da Barbara Spinelli, Tomaso Montanari, Roberta De Monticelli, Remo Bodei, Antonio Padoa Schioppa, e poi da decine di migliaia di persone.
L’effetto fu men che nullo: silenzio del Pd, Beppe Grillo che irrideva “gli intellettuali” accusandoli di vanità e servilismo (il sarcasmo di Grillo contro gli “intellettuali” ha molto in comune con quello di Renzi contro i “professoroni”). Adesso, con solo sei anni di ritardo, Renzi auspica, come fosse un’idea sua, l’alleanza (che ha sempre vietato) fra i frantumi del Pd (che ha devastato) e il M5S (che ha insultato); ma la vede come un’alleanza strumentale, mirata non a governare bene il Paese sulla base di un trasparente programma di governo ispirato alla Costituzione, ma solo ad arginare la frana di chi ha perso le Europee e lo strapotere di chi le ha vinte. Miope progetto, che nasconde lo stesso identico fine della Lega di Salvini: stringere alleanze per frodare l’alleato, metterlo all’angolo, strappargli pezzi di elettorato. A prescindere da qualsiasi accordo o disaccordo programmatico.
Simmetricamente, Zingaretti prova a dare una mano a Salvini non sulla base di una trasparente intesa di programma, ma per un calcolo elettorale al buio, ulteriormente avvelenato da faide di partito. Questo, sotto la retorica del cambiamento, sembra essere il codice genetico che governa la politica nostrana. Da un lato capi politici che cambiano per non cambiare, e dunque spingono il loro sguardo al massimo fino a domani (ma non a dopodomani), dall’altro ormai solo qualche cittadino che prova a guardare lontano immaginando qualche meta, qualche idea d’Italia, e a cui resta solo la magra soddisfazione di sussurrare ogni tanto “l’avevo detto”.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano il 15 agosto 2019

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