di Aldo Tortorella
Per cercare di riportare l’attenzione sul mondo dominato dal capitale, in cui viviamo, pubblichiamo in questo numero la relazione tenuta ad un convegno cui la nostra rivista, Critica marxista, ha partecipato, che aveva come titolo “Crimine capitale”. Questo titolo non voleva dire che tutto il capitale è un crimine, seppure in esso il crimine abbondi, ma che il crimine organizzato ha le medesime finalità di lucro da cui nasce la spinta al profitto e che sempre di più le mafie, a partire dalle più forti, entrano con i loro proventi nel capitale legale.
Ciò è ben noto in tutti i maggiori paesi sviluppati, a partire dagli Stati Uniti d’America. E, in Italia, lo si sa largamente fin dal tempo dell’ascesa di Berlusconi come imprenditore e come politico in coppia con il fedele Dell’Utri, socio fondatore del potere economico berlusconiano e di Forza Italia, ricco di amici mafiosi, poi condannato per “concorso esterno” alla mafia. Ma ciò che parve allora una eccezione – e non lo era – è oggi riconosciuta come una consuetudine, nonostante gli sforzi della magistratura assieme a tanta parte degli organi di contrasto e nonostante i risultati raggiunti – anche per la crescita di grandi movimenti giovanili e popolari, come Libera, dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino.
Fu certo importante la sconfitta della mafia stragista, e, poi, gli arresti e i sequestri tra le vecchie e nuove organizzazioni criminali che non si scontrano in armi con lo Stato, pur fondandosi sulla intimidazione violenta come elemento costitutivo ed essenziale, e sulla disciplina interna basata sui reciproci omicidi. Ormai, però, non si tratta più solo del fatto che in vaste plaghe del mezzogiorno le mafie rimangono più che mai il potere vero in assenza dello Stato, ma, soprattutto, si tratta dell’insediamento stabile delle associazioni criminali (la più forte pare ora la ‘ndrangheta) in tutte le regioni più sviluppate del paese. Qui vengono utilizzati in grande misura i proventi mafiosi (calcolati a decine di miliardi) e qui si è venuto saldando il rapporto più o meno mascherato con il mondo degli affari e, dunque, con il potere politico, come si è visto in recenti esempi.
La penetrazione del capitale criminale, quando diviene organica, partecipa a modificare la natura stessa del potere. I governanti dello Stato che dovrebbero essere i garanti della legalità divengono i garanti del contrario, anche rischiando la morte se vogliono fare quello che è il loro dovere. Come si vide nella tragedia del presidente Usa Kennedy aiutato nell’ascesa alla presidenza dai mafiosi già soci del padre e assassinato, a beneficio della estrema destra, quando il fratello Robert ministro della giustizia, poi assassinato a sua volta, volle iniziare a colpire le associazioni criminali. E come si vide in Italia quando fu ucciso Salvo Lima, plenipotenziario di Andreotti in Sicilia, perché “non aveva rispettato i patti”: cioè lui e il suo capo non erano riusciti a modificare le condanne alla cupola di “cosa nostra”.
Ammaestrato da questi illustri esempi, il ministro degli interni Salvini, giustamente denominato ministro della propaganda per la latitanza dal proprio ministero, si vanta dei risultati che la magistratura e le forze dell’ordine per loro conto vanno ottenendo in vari episodi di contrasto alla criminalità, ma al tempo stesso minaccia di togliere la scorta a chi rischia la pelle per aver denunciato questo o quel gruppo mafioso, propone come nemico principale gli immigrati in cerca di integrazione e non le mafie straniere, come quella nigeriana, alleate con le nostre, indossa abusivamente il giubbotto della polizia, ma non dice dove sono finiti i soldi che deve allo stato il suo stesso partito, spara invettive contro un indefinito “establishment” ma si guarda bene dal criticare i veri potenti, quelli che da Wall Street e dintorni decidono le sorti del mondo e le sue.
Costui, a ben guardare, non è un protagonista ma un esito, un prodotto, del rovesciamento della cultura diffusa, iniziato con il deterioramento e poi il crollo delle speranze suscitate dal primo tentativo di fondare una società alternativa. Dalla critica – talora purtroppo sommaria e superficiale – delle ingiustizie e delle contraddizioni del modello capitalistico, si passò alla sua esaltazione senza riserve. Con il ritorno a tutti i pregiudizi del passato, di cui si sono sempre alimentati i reazionari – e oggi i populisti dell’odio – e con la reviviscenza di tutti i luoghi comuni ivi compreso il motto semibarbaro secondo cui “il danaro non puzza” (“pecunia non olet” viene, come si sa, dal tempo in cui la ricchezza si misurava col numero delle pecore, “pecus”).
E, invece, il danaro può puzzare moltissimo. Non solo quello intriso di droga e di sangue delle mafie, ma anche una rilevante parte del capitale formalmente legale. La formalità legale, vale a dire l’accumulazione mediante lo sfruttamento del lavoro manuale o intellettuale secondo le leggi e i contratti, comprende anche l’informalità illegale: ad esempio, i capitali accumulati in spregio a leggi e contratti (il lavoro nero giunto sino al neoschiavismo). E nel cumulo dei capitali, utilizzati per fare altri soldi o per conquistare il potere (i soldi per il potere, il potere per i soldi), entrano a pieno titolo anche i capitali sottratti ai doveri fiscali, secondo un’abitudine diffusa tra i possidenti.
Un’abitudine così diffusa che nelle carte svelate – era il 2017 – da un dipendente di una delle maggiori aziende specializzate in evasione fiscale (la panamense Mossack Fonseca), tra le migliaia di nomi degli evasori comparve anche quello della regina d’Inghilterra (sotto la forma di una sua società), insieme ai nomi di bancarottieri e mafiosi, di imprenditori, manager, professionisti d’ogni paese, Italia compresa, oltre che di uomini di governo d’ogni parte del mondo. Tutti quanti in segreta e lieta comunione nei depositi occulti delle isole Cayman.
Si disse allora che tutto il potere mondiale tremasse. Anni prima (2010) si era detta la stessa cosa dopo il primo scandalo sollevato dalle rivelazioni di Wikileaks sui depositi nei paradisi fiscali e la commissione europea – presieduta dall’ex capo di un paradiso fiscale, il Lussemburgo – si era data una piccola mossa. Naturalmente, il presunto tremore fu rapidamente superato, allora e poi, con qualche aspirina (qualche norma da imporre che gli stati non impongono) e i paradisi fiscali continuarono e continuano a prosperare serenamente, imbottiti di migliaia di miliardi di dollari e di euro.
Che hanno anch’essi un pessimo odore perché, come si sa, recano un danno enorme all’economia di un paese e dunque all’insieme del popolo, offendono i cittadini onesti, indicano la ipocrisia e la corruzione morale largamente diffuse tra i gruppi dominanti ai quali appare una pratica quasi normale l’evadere il fisco e mandare i soldi all’estero. Per combattere l’evasione dicono che bisogna abbassare le tasse ai più ricchi, come ha fatto Trump. Così saranno premiati per la loro lungimiranza di evasori e risparmieranno anche le spese del fiscalista.
Non sono caratteristiche solo del vecchio capitalismo. Abbiamo imparato che nella rivoluzione digitale e nel conseguente “capitalismo delle piattaforme”, quello che deriva dall’uso della rete, i padroni dei principali “marchi”sia che vendano spazi pubblicitari o software, tecnologie o servizi – praticano l’evasione fiscale non meno del passato, anzi di più per le caratteristiche stesse del mezzo. E a ciò uniscono altri loschi affari come la vendita illegale, al migliore offerente, dei profili dei propri utenti informatici a fini elettorali e commerciali.
Fino ad arrivare oggi all’annuncio della creazione di una moneta parallela che – in assenza di adeguate contromisure – potrebbe anche determinare il rischio, già da molti denunciato, di un uso da parte della criminalità organizzata per le proprie operazioni e per il riciclaggio, dato che quella moneta potrebbe sfuggire ad ogni controllo. E anche nelle nuove forme di sfruttamento del “lavoro vivo”, il nuovo capitalismo eccelle nella creazione del precariato sempiterno e nell’uso di lavoro nero. Niente manca delle tendenze a delinquere.
Capisco bene che le forze di sinistra che vogliano proporsi di sconfiggere un pessimo governo come quello attuale, minaccioso per la democrazia stessa, per cercare di sostituirlo con uno meno pericoloso, o migliore, non può illudere i propri sostenitori rimasti e quelli nuovi da conquistare fingendo che sia possibile cancellare d’un colpo tutte queste vergogne.
Esse non sono bubboni passeggeri in un corpo integro e puro, ma parti costitutive di un corpo che trae forza dai propri istinti peggiori. Ma la ricerca di soluzioni possibili e parziali che impediscano le degenerazioni estreme non vuol dire rinunciare a dire la verità. So che questa è una parola difficile da pronunciare non solo per le antiche e recenti dispute dei filosofi, ma perché siamo al tempo del dominio delle falsità facilmente contagiose, data la lotta contro ogni spirito critico e a favore della diffusione dell’ignoranza. Si dice che siamo al tempo della post-verità, perché l’emozione sostituisce il vero.
Tuttavia, le verità di fatto esistono. Le mafie sono solo una delle aberrazioni di un modello che vive di tendenze alla sopraffazione reciproca, che pratica abitualmente l’illegalità, che è vissuto delle guerre più spaventose. Se si pensa anche solo a contenere per poi evitare i guasti peggiori cui ho accennato – dal potere criminale all’evasione criminosa, dai rischi d’involuzione autoritaria al dominio incontrastato delle “piattaforme” – occorre dire come stanno le cose, occorre risollevare l’indignazione verso gli autori veri di un mondo tanto rischioso e tanto pieno di sofferenze umane. La crisi attuale, dalla rovina ambientale all’abisso tra mondo della fame e mondo dello spreco, dalle guerre in atto a quelle che si minacciano, è crisi di civiltà. Il disvelamento delle sue origini reali nel modello economico e sociale in cui viviamo è la premessa di ogni opera seriamente riformatrice.
Il convegno “Crimine capitale” – organizzato dall’Associazione per il rinnovamento della sinistra (Ars) e dal Centro per la riforma dello Stato (Crs) – si è tenuto a Roma il 12 giugno con introduzione di Vincenzo Vita, relazione di Francesco Forgione, interventi di Floriana Bulfon, Enzo Ciconte, Graziella Di Mambro, Alfonso Gianni, Pietro Grasso, Franco La Torre, Giuliana Merola, Franco Mirabelli, Isaia Sales.
Il testo di Aldo Tortorella è la riscrittura delle conclusioni del convegno ed è diventato l’editoriale che apre il nuovo numero di Critica marxista (3/2019).
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