di Piero Di Siena
Più va avanti l’attuale esperienza di di governo Lega e Movimento 5 Stelle e più appare evidente – tra tensioni, strappi e faticose mediazioni – che stiamo assistendo in Italia alla costruzione di un inedito regime reazionario di massa. Dalle politiche sull’immigrazione, a quelle sulla famiglia e le libertà individuali, alle misure restrittive del pluralismo nell’informazione, all’approccio di tipo economico-corporativo con cui si sta attuando una grande misura di redistribuzione della ricchezza quale dovrebbe essere il reddito di cittadinanza, agli atti continui di mortificazione della democrazia rappresentativa, si sta realizzando una trasformazione profonda del rapporto tra società e istituzioni, che mina dalle fondamenta le basi democratiche della Repubblica.
E ciò avviene con il sostegno della maggioranza del popolo italiano, attraverso una vera e propria mutazione dello spirito pubblico dominante e entro un quadro di distribuzione del consenso in cui il rovesciamento in atto dei rapporti di forza tra Lega e Movimento 5 Stelle è esso stesso un fattore teso a dare stabilità alla costruzione, come si è detto, di un vero e proprio regime.
Naturalmente, tutto ciò avviene lungo una linea di tendenza non ancora stabilizzata, per cui sarebbe errato sottovalutare le contraddizioni e i contraccolpi che questo processo in atto può produrre tra gli attori politici, di maggioranza e di opposizione, e soprattutto tra i 5 Stelle che sono la forza sottoposta alla più profonda mutazione.
E tuttavia le forze che dovrebbero contrastare questo corso delle cose – da quel che resta della sinistra politica, sia pur ridotta a forza marginale e al suo interno divisa, ai diversi orientamenti liberaldemocratici alle prese con la difficile impresa di una vera e propria rifondazione del Pd, che appare comunque ardua e problematica – appaiono incerte e confuse, come spiazzate dai rapidi cambiamenti dell’opinione pubblica e degli orientamenti tendenzialmente dominanti nel paese.
Un bilancio della crisi capitalistica
Trovare il bandolo a partire dal quale ricostruire un’alternativa democratica non è evidentemente impresa agevole, anche se dalla ripresa dell’iniziativa sindacale alla reazione democratica di tanti settori della società civile organizzata alle politiche dell’attuale maggioranza di governo risulta evidente che le risorse e le energie da cui ripartire non sono del tutto esaurite.
Per cercare di capire – soprattutto a sinistra – le ragioni di mutamenti, apparentemente così repentini, negli orientamenti del paese bisogna allargare lo sguardo al contesto più generale entro cui essi si sono prodotti. È il momento, infatti, di fare un bilancio della lunga crisi che il capitalismo mondiale sta attraversando a partire dal 2007, e che proprio nell’ultimo semestre sembra ripiombare nel suo punto più basso. L’esasperazione ulteriore impressa dagli Stati Uniti di Trump, con le sue politiche protezionistiche, alla già aspra competizione nella divisione internazionale del lavoro tra le maggiori potenze economiche mondiali si sta rivelando una cura peggiore del male. È in corso infatti un nuovo rallentamento dell’economia mondiale che rischia di mandare in recessione i paesi più fragili, come l’Italia, ma non promette nulla di buono per il resto del mondo.
L’andamento bifronte degli assetti capitalistici attuali (internazionalizzazione della proprietà delle imprese e della finanza e chiusura dentro i confini dei maggiori paesi per cercare un antidoto all’impoverimento delle classi medie, e quindi alla crisi di consenso, che la globalizzazione ha prodotto) fa assumere alla crisi economica i connotati di una vera e propria “crisi organica”, che coinvolge cioè la politica e le sue istituzioni, gli orientamenti di grandi masse e la formazione del senso comune.
Il rischio della guerra
E si tratta di una crisi che può per tanti aspetti assumere un andamento catastrofico. Ritorna più ravvicinato che mai il pericolo di una guerra generalizzata, di cui la rottura unilaterale da parte degli Stati Uniti degli accordi sul nucleare stipulati alla fine del secolo scorso da Reagan e Gorbaciov è il segnale più significativo. L’America latina, dal Brasile al Venezuela, anche per contraddizioni intrinseche alle esperienze progressiste che l’hanno segnata per un ventennio, è vittima di un processo controrivoluzionario sostenuto e alimentato dagli Stati Uniti. La Cina consolida il suo ruolo mondiale attraverso la sua penetrazione in Africa e la costruzione di un inedito rapporto con la Russia e l’Europa attraverso il completamento di infrastrutture e relazioni commerciali note come la “nuova via della seta”. Il Medio Oriente resta una polveriera in cui sempre più si consolidano le monarchie del Golfo.
Nel quadro di questi processi l’Unione europea sembra avere le ore contate. Se la crisi economica in atto assesta un colpo definitivo alle esportazioni tedesche, verrà meno una delle basi materiali dell’asse franco-tedesco che è stato la spina dorsale dell’integrazione europea. Il dilagare di movimenti sovranisti e populisti sono più il sintomo della crisi catastrofica che attraversa l’Unione che un’alternativa al suo assetto attuale. E del resto che la dimensione nazionale non sia esente dai fenomeni di disgregazione propri della crisi che stiamo attraversando ce lo ricordano la vicenda catalana, sopita ma non risolta, che pesa come una spada di Damocle sulla coesione nazionale della Spagna, il processo di autonomia differenziata avviato in Italia che darà un duro colpo alla sua già fragile coesione interna, gli effetti disgreganti che la Brexit ha prodotto tra le varie nazionalità che compongono il Regno Unito.
C’è da interrogarsi poi se la crisi del ruolo internazionale dell’economia tedesca fondata sulle esportazioni, che è stato il principale collante dell’Unione, non introduca elementi di sconnessione nell’assetto federale della Germania attuale, a cominciare dal rapporto con i Land dell’ex Germania dell’Est.
La sinistra o è continentale o non è
Quindi di ben altro c’è bisogno che il ritorno alla sovranità nazionale come sostengono anche settori della sinistra che pensano, illusoriamente, di ritrovare per questa strada la connessione sentimentale perduta con le masse popolari. Alla sinistra, se vuole rinascere, tocca un compito ben più ambizioso, quello di capire come invertire la rotta e offrire un’alternativa che produca effetti su scala generale al catastrofico corso delle cose prodotto dalla crisi attuale.
Dunque, se questo è l’obiettivo, la sinistra deve assumere una dimensione continentale, che è l’unica che possa far svolgere un ruolo ai popoli di questa parte del mondo nella competizione globale in atto, indipendentemente dal fatto che l’Unione sopravviva alla crisi che l’ha investita. L’interrogativo è se il Continente europeo, anche in nome della sua tradizione storica, in quanto culla della democrazia e del movimento operaio, possa essere “l’anello debole” degli attuali precari assetti del capitalismo mondiale, e essere il luogo in cui maturi un’alternativa radicale alle tendenze in atto.
Perché questa impresa di portata storica possa essere tentata è necessario che ci sia un riferimento organizzativo univocamente assunto, nonostante tutte le differenze di analisi e di programmi. Da questo punto di vista la scelta della Sinistra europea con tutti i suoi limiti (come del resto accadde dopo l’Ottobre con i 21 punti che indicavano i requisiti per aderire all’Internazionale comunista) diventa una discriminante imprescindibile. È necessario inoltre capire che, se la cri- si capitalistica in atto ha i caratteri che ho cercato di riassumere, questo non è tempo di riforme ma di rivoluzioni. Dove per “rivoluzione” non s’intende la rivolta, la sovversione, l’eversione dell’ordinamento democratico, che oggi invece alimenta i populismi, ma il rovesciamento radicale dell’ordine delle cose e dei rapporti tra le classi.
Il lavoro e un nuovo assetto del mondo
Questa è la ragione perché la sinistra a livello europeo cominci a lavorare alla costruzione di una dimensione statale sovranazionale fondata sula sovranità popolare (e non sui trattati come l’Unione), a un modello economico non governato esclusivamente dall’equilibrio dei bilanci pubblici ma da un nuovo modello nella produzione e nello scambio guidato da un forte e qualificato intervento pubblico orientato a un nuovo modello di sviluppo su scala continentale. Sarebbe poi necessaria una ricognizione sulla possibilità di trovare un rapporto preferenziale con la Cina, che sostituisca il tradizionale asse con gli Stati Uniti, per definire un nuovo ordine mondiale che abbia come obiettivo la diminuzione delle diseguaglianze e degli squilibri che oggi penalizzano alcune aree del mondo a cominciare dall’Africa e costituiscono uno dei fattori dell’instabilità generale.
Perché un simile processo possa avviarsi è tuttavia indispensabile che i sindacati europei voltino pagina, che l’unificazione delle condizioni di lavoro su scala continentale diventi il loro principale obiettivo, che questo costituisca la base di un nuovo rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia organizzata fondata sul principio della partecipazione, in modo che in Europa torni il lavoro ad essere il fattore principale della coesione sociale.
Si tratta di utopie e di illusioni? Può darsi, visto lo stato attuale delle cose, sebbene in una prospettiva di portata storica sono mete difficilmente eludibili. E poi senza di esse per quale ragione una sinistra politica dovrebbe continuare ad esistere?
Questo articolo è stato pubblicato da Critica marxista 1/2019