di Duccio Facchini
“Acqua: ritorno alla gestione pubblica? Il conto da pagare”. Un recente speciale “Dataroom” di Milena Gabanelli (Corriere della Sera) si è occupato dello “stato di salute” e dei costi della ri-pubblicizzazione del servizio idrico nel nostro Paese. L’approfondimento – contestato dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua (“Un pessimo servizio al diritto d’informazione”) – presenta però più di un punto critico.
Andiamo per gradi. La fonte principale dell’articolo e del video “spiegazione” di Gabanelli è una “analisi della società Ref ricerche (società che ‘affianca aziende, istituzioni, organismi governativi nei processi conoscitivi e decisionali’, ndr) di prossima pubblicazione, realizzata su un campione di 80 gestori per una popolazione servita di 38 milioni di abitanti”. Da questa emergerebbero “perdite di rete tra il 35 e il 55%”, oltre al fatto che “il 60% dei gestori distribuisce acqua di non alta qualità” e che “50 gestioni rilevano sversamenti da fognatura”. “La situazione attuale -si afferma- è figlia della legge Galli del 1994”. Che cosa succedeva fino ad allora secondo “Dataroom”? I Comuni, pur di “mantenere tariffe basse e consenso elettorale”, “non investivano nel sistema idrico, abbandonandolo al proprio destino”. Tutta colpa loro, insomma. Il Forum non ci sta: “Andrebbe ricordato che l’attuale sistema di gestione, in vigore da oltre 20 anni, prevede l’affidamento a società di capitali e la copertura dei costi tramite tariffa. Sistema di gestione da cui gli Enti Locali sono stati completamente estromessi”.
Il punto è che il modello ideale proposto in alternativa al fallimentare sistema idrico “pubblico” è quello delle multiutility, con le quattro quotate in Borsa – Hera, Iren, A2a e Acea – a far da punto di riferimento di un asserito “modello industriale dell’acqua pubblica”.
Gabanelli ammette che queste facciano “utili corposi”, salvo aggiungere che “il grosso viene reinvestito”. Ma è sbagliato e lo dimostrano i bilanci delle stesse società citate nel servizio. A2a Spa, ad esempio, ha realizzato utili pari a 373,1 milioni di euro. Il “grosso” è stato reinvestito? No. 217,6 milioni sono stati prelevati come dividendo ordinario agli azionisti, a titolo di remunerazione.
Stessa cosa per Iren: 125,9 milioni di utile e 109,3 milioni di dividendo. Come Hera: 195,1 milioni di euro di utile e 149 milioni circa di dividendo. Acea addirittura ha distribuito un dividendo complessivo di 150,9 milioni a fronte di un utile di 147,8 milioni.
Non è una prassi limitata al 2018, come sa Remo Valsecchi, commercialista e membro del Forum nazionale dei movimenti per l’acqua: “Dal 2008, anno di inizio della quotazione, al 2018 -spiega Valsecchi, bilanci alla mano- A2a ha distribuito ai soci 1,9 miliardi di euro contro 1,1 miliardi di utili realizzati, prelevando la differenza dalle riserve e riducendo il patrimonio netto, quello formato dalla trasformazione delle vecchie municipalizzate e creato con il denaro degli utenti. Perché non ricordarlo?”.
Discorso analogo per Acea. “Acea ATO2 (controllata dalla holding Acea, quotata in Borsa, operante nel bacino di Roma, ndr), nel periodo 2014-2017 ha realizzato 462,4 milioni di euro di utili, pagato 161 milioni di imposte e distribuito dividendi per 263,3 milioni, lasciandone una parte, il 13%, per gli investimenti. Come sono stati finanziati gli investimenti? Con prestiti fatti dalla capogruppo, all’incirca per un importo pari agli utili prelevati, ed un costo per il gestore, nel periodo, di 132,3 milioni. Vogliamo ancora difendere questi modi di gestire i servizi pubblici?”.
L’altro punto problematico del servizio di “Dataroom” è quello dei costi a carico dei contribuenti per la ri-pubblicizzazione dell’acqua, proposta da una legge d’iniziativa popolare del 2007, promossa dal Forum, e poi ripresa dalla bozza Daga giacente in Parlamento. Secondo Gabanelli si aggirerebbero “fra i 14,6-16,5 miliardi”. La fonte (citata) è uno studio redatto dalla società di consulenza Oxera e commissionato da Utilitalia, l’associazione dei gestori. In realtà, come spiega un dossier ad hoc curato dal Forum, presentato a metà maggio e costruito a partire dai bilanci e dalle informazioni inerenti all’attuale assetto di gestione del servizio idrico, il costo una tantum per la ri-pubblicizzazione, “sostanzialmente relativo alla riacquisizione delle quote societarie detenute da soggetti privati” (Forum), sarebbe compreso tra 1 e 1,5 miliardi di euro. Un decimo delle cifre paventate.
“Perché -si chiede Paolo Carsetti, anima del Forum italiano dei movimenti per l’acqua (acquabenecomune.org)- non si è approfondito il tema cercando anche altre voci fuori dal coro rispetto a chi governa il sistema? È falso affermare che la proposta di Legge in Parlamento preveda la decadenza delle concessioni al 2020. Si prevede solo per quelle società a totale capitale privato ossia l’1,5% del totale. Da ciò deriva che i 10 miliardi di euro previsti negli studi di Ref od Oxera per gli indennizzi ai gestori non hanno alcun fondamento”.
Poi c’è il tema della tariffa. Il servizio di “Dataroom” non fa alcuna menzione del contestato metodo tariffario dell’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (ARERA, un tempo Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico), al quale abbiamo dedicato a marzo la nostra inchiesta “L’acqua in bolletta”. Si limita a riferire (fonte Ref) “come nel periodo 2018-2019, nel Nord Italia, in alcuni casi le tariffe siano diminuite”. Cita Bologna, “meno 11%”. Gabanelli sostiene che “in sostanza laddove i gestori operano bene il risultato c’è, dove operano male no”. Valsecchi conosce quel caso. “A Bologna -spiega il membro del Forum- il costo al metro cubo andava da 1,46 euro per una famiglia unipersonale a 2, 82 euro, a parità di consumi per persona, per un nucleo familiare composto da sei persone. Grazie all’Ente di governo dell’Ambito (EGATO), e non certo al gestore, con la nuova modulazione tariffaria, senza aspettare il 2022, come prevede ARERA, il costo per metro cubo a parità di consumi è uguale per tutti (1,46 euro/mc), con qualche variazione di centesimi”.
Chiude il cerchio la questione degli “investimenti netti pro capite” misurati da Ref Ricerche e ripresi dall’articolo. “Tra il 2016 e il 2019 -si legge su ‘Dataroom’ – sono di 47 euro al Nord, 57 al Centro e 18 al Sud e nelle isole. Tanto, poco? In Norvegia arrivano a circa 170 euro, in Danimarca a 160, in Gran Bretagna 140 (ma qui le bollette sono ben più salate)”. È un parametro corretto? Per Valsecchi no. “Bisognerebbe spiegare ai milanesi che la gestione del servizio idrico a Milano è tra le peggiori d’Italia. Secondo Gabanelli e Ref Ricerche, infatti, la media di investimenti per abitante è di 17 euro/mc nel 2017 e di 25 euro/mc nel 2018, vicina ai 18 euro/mc del Sud e Isole, lontana dai 47 euro/mc del Nord e lontanissima dai 170 euro/mc della Norvegia. Inoltre la tariffa di 0,760 euro/mc è, insieme a Campobasso, la più bassa d’Italia e troppo bassa rispetto alla media delle principali città europee”. Si deve concludere quindi che si tratti di un modello inefficiente? “Niente affatto, non si preoccupino i milanesi, sono solo i parametri a essere strampalati e privi di ogni significato. Ogni territorio, anche per le sue caratteristiche morfologiche, ha costi di investimento e di gestione naturalmente diverse, le comparazioni non servono e non dicono nulla.
La Norvegia, ad esempio, ha un territorio più vasto di quello italiano, un numero di abitanti pari a 5.328.212, meno del 10% del nostro, e una densità abitativa per chilometro quadrato di 14,59 contro i 7.512,20 di Milano. Fa investimenti per circa 1 miliardo di euro, un terzo degli investimenti italiani. Sarebbe molto strano un servizio con un costo per investimenti inferiore e tariffe più basse”. Com’è strano dimenticare completamente il referendum del 12 e 13 giugno 2011.
Questo articolo è stato pubblicato da Altreconomia il 1 giugno 2019