Non sarà un pranzo di gala: come costruire l'altra Europa

24 Giugno 2019 /

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di Marco Bersani
Cosa concretamente può succedere, nel momento in cui si apre un conflitto radicale con l’attuale Unione europea, per aprire la strada ad un’alternativa europea (e globale) di società?». Naturalmente, nessuno, tantomeno chi scrive, ha la sfera magica con cui predire il futuro, tanto più in una fase così incerta e inquietante, da richiamare il famoso monito di Gramsci «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati» [1].
Di fatto, siamo in un’epoca nella quale «le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano» [2] e le élite sono state talmente delegittimate, da trasformarsi da classi dirigenti in classi dominanti, detentrici non più del consenso, bensì della pura forza coercitiva.
In questo contesto, il primo passo può essere realizzato solo attraverso la messa in campo di una diversa narrazione del presente, capace di spiegare con parole semplici concetti complessi, onde evitare che la frustrazione, prodotta dalla precarietà esistenziale e sociale, nella quale la gran parte delle persone sono state precipitate dalle politiche liberiste, provochi l’interiorizzazione della propaganda oligarchica sull’intoccabilità dell’architettura dell’Unione europea e trovi come canale di sfogo l’appartenenza identitaria, propugnata dal nazionalismo xenofobo e razzista.
Con una consapevolezza di fondo: se non si intacca la premessa ideologica «C’è il debito, non ci sono i soldi», nessun argine potrà fermare la conseguente affermazione «Se i soldi non ci sono, prima gli italiani! (o gli spagnoli, i tedeschi ecc.)».
Potremo mettere in campo tutta l’indignazione solidale e tutto il necessario armamentario antirazzista e antifascista – e va sicuramente fatto -, ma senza mettere in discussione la narrazione dominante, le nostre azioni sarebbero caratterizzate da un’enorme generosità, ma produrrebbero altrettanta inefficacia.
Senza rivoluzionare il telaio iper-finanziarizzato dell’attuale Unione europea, e degli Stati nazionali che la compongono, nessun cambiamento sociale sarà possibile. Il secondo passo potrebbe essere sintetizzato dallo slogan «nessun cambiamento è possibile senza le piazze piene di persone».
Lo stato attuale della democrazia e delle istituzioni evidenzia alcune caratteristiche precise: la segretezza e l’opacità delle scelte – dizionario alla mano, il contrario di «pubblico» è «segreto» -; la privatizzazione della politica, divenuta un’arena per gli interessi privatistici dei capitali finanziari e delle grandi imprese; la teologia della governabilità, ovvero l’idea di come tutto provenga dall’alto e, di conseguenza, l’unico obiettivo sia prendere quel potere.
Analogamente a quanto detto sui beni comuni e sulla ricchezza sociale, anche per quanto riguarda la politica, la risposta alla sua privatizzazione è quella della socializzazione. Pensare che il cambiamento possa avvenire attraverso la scorciatoia dell’ingresso nelle istituzioni significa non aver compreso come, senza una mobilitazione sociale ampia e permanente, nessuna azione può incidere significativamente dentro le sedi formali.
È sempre stato vero, ma oggi lo è in maniera ancor più pregnante, che nelle istituzioni si deve entrare per eccedenza e non per frustrazione, ovvero se, e solo se, si è prodotta una tale movimentazione sociale, da far divenire l’irruzione nelle istituzioni un passo naturale di rafforzamento delle lotte, e un terreno di ulteriore vertenza per la loro radicale democratizzazione. Se invece si entra per frustrazione, ovvero per ovviare alla percezione di non contare nulla o per l’idea, sbagliata, che solo entrando si possano produrre mutamenti, occorre allora sapere che saranno le istituzioni a cambiare chi vi entra e non viceversa.
Il terzo passo è determinato dalla convergenza delle lotte e delle pratiche dentro un nuovo orizzonte politico e culturale di principi, di governo della società, di creazione della ricchezza, di concezione dei rapporti sociali, di trasformazione delle relazioni uomo/donna e uomo/natura, di riappropriazione della democrazia. Senza una nuova visione articolata e capace di suscitare mobilitazione di massa, l’«imprinting» di questi decenni continuerà a far sembrare le idee neoliberali come unica saggezza convenzionale che l’opinione pubblica ha più facilità a percepire.
Nessuno prende il mare e decide di navigare senza avere almeno immaginato l’approdo. Le riflessioni sopra esposte costituiscono le precondizioni per un conflitto forte contro l’assetto liberista e «austeritario» dell’attuale Unione europea. Che può svilupparsi in due diverse direzioni, a seconda delle dinamiche sociali che via via entreranno in campo. Vediamo di seguito due possibili scenari, il primo più favorevole, il secondo decisamente più complicato.
Scenari del conflitto esteso
Il primo scenario che proviamo a immaginare è quello di un conflitto esteso, nel quale si sono prodotti forti movimenti sociali a livello europeo, con mobilitazioni permanenti contro le politiche di austerità. In questo scenario, le rivolte popolari hanno portato al governo di alcuni Paesi coalizioni politiche, nate come espressione delle lotte prodotte, con maggioranze parlamentari stabili e, di conseguenza, con possibilità di prendere decisioni senza continue mediazioni al ribasso.
Questi governi sono stati eletti con programmi di ripudio delle politiche liberiste e di austerità e vengono costantemente accompagnati da mobilitazioni popolari, che sostengono i programmi con cui li hanno eletti, e vigilano sul fatto che i governi vi si attengano senza cedimenti.
Sul fronte interno, procederanno ad approvare politiche di trasformazione dell’economia in direzione ecologica e sociale, partendo dal riconoscimento dei diritti del lavoro e del diritto al reddito universale di base, promuovendo la riappropriazione sociale dei beni comuni e la socializzazione dei settori strategici dell’economia e dei servizi pubblici fondamentali.
Le misure interne serviranno a realizzare il programma con cui sono stati eletti, rafforzando il consenso sociale, per poter affrontare da un punto di forza le vertenze in campo sullo scenario europeo. Forti del consenso popolare, i governi si coordinano e decidono di attuare forme di disobbedienza congiunta nei confronti dei trattati dell’Unione europea.
In particolare, decideranno l’uscita dal Fiscal compact, porranno il problema dell’abolizione dell’austerity in tema di bilancio e della necessità di un’armonizzazione fiscale e sociale verso l’alto di tutti i paesi dell’Unione europea. Contemporaneamente, metteranno in discussione l’utilizzo del debito pubblico come parametro unico di misura della stabilità finanziaria di un Paese, aprendo il fronte con una moratoria sul pagamento degli interessi, finalizzata a realizzare un audit indipendente sullo stesso.
Metteranno in discussione l’attuale assetto della Banca centrale europea, chiedendone la fine dell’indipendenza dai governi e la sua trasformazione in banca pubblica, con priorità d’azione in favore della piena occupazione, della riconversione ecologica della società e di prestatore in ultima istanza sull’acquisto dei titoli di stato dei Paesi.
Infine, chiederanno una riforma del sistema bancario, con la separazione netta fra banche commerciali e banche d’investimento, l’abolizione dei paradisi fiscali e l’applicazione della Financial Transation Tax per il controllo dei movimenti di capitale. L’insieme di questi provvedimenti, naturalmente, provocherà uno sconquasso all’interno dell’Unione europea, che sarà più o meno devastante a seconda di quali siano i Paesi, i cui governi hanno costituito il fronte della disobbedienza alle politiche liberiste.
I possibili esiti di questo conflitto sono diversi, ma occorre dire che, dentro uno scenario di forti mobilitazioni a livello europeo e con alcuni paesi, governati da coalizioni espresse dalle mobilitazioni stesse, che decidono di disobbedire ai vincoli liberisti, due sono gli scenari maggiormente probabili: lo scontro senza quartiere fra l’establishment e i paesi ribelli, che produrrebbe la sostanziale fine dell’attuale Unione europea e la conseguente riaggregazione dei Paesi in altre forme di integrazione, a seconda dei diversi progetti politici, oppure la rimessa in discussione del Trattato di Maastricht (e seguenti), con l’avvio di un processo costituente per l’adozione di un nuovo trattato di fondazione dell’Unione europea.
Scenari del conflitto da un paese solo
Lo scenario descritto in precedenza nasce da alcuni presupposti molto favorevoli: movimenti di lotta incisivi e di dimensione europea, e l’arrivo più o meno contemporaneo in alcuni Paesi di governi nati come espressione delle mobilitazioni prodotte. È di conseguenza lo scenario «ideale», dentro il quale può avvenire lo scontro con l’oligarchia liberista che attualmente governa l’Ue. Essendo lo scenario ideale, è anche il meno probabile in tempi brevi.
Proviamo a immaginare, invece, uno scenario con possibilità forse più probabilistiche, ma con implicazioni ovviamente molto più complesse: l’apertura del conflitto a partire da un solo Paese. È, tra l’altro, uno scenario che è già avvenuto nella realtà, con lo scontro tra il popolo greco e il governo di Syriza da una parte, e la Troika dall’altra, il cui catastrofico esito obbliga tutti a un surplus di approfondimento.
In questo percorso, ci aiuta un articolo comparso su «Le Monde Diplomatique» [3], a cui farò riferimento per la ricchezza dei dettagli intrapresa nel definire le diverse tappe. In questo caso, immagineremo che la protagonista sia l’Italia, paese che, data l’attuale situazione, parrebbe il più lontano da una situazione di ribellione sociale.
Anche in questo scenario, le precondizioni sono le medesime di quello precedentemente analizzato, solo territorialmente collocate all’interno di un Paese solo: una popolazione in lotta, e mobilitata in maniera permanente, che vuole chiudere con tre decenni di politiche liberiste; un governo, con un’adeguata maggioranza parlamentare, eletto su un programma dichiaratamente anti-liberista, con una struttura pubblica statale e locale in grado di poterlo portare avanti, e con un consenso popolare ampio e attivo.
Come si è visto con l’esperienza greca, l’insieme delle precondizioni rappresenta già una sorta di dichiarazione di guerra, che, probabilmente, i «mercati» avrebbero già avviato prima dell’arrivo del nuovo governo, con l’intento di condizionare le elezioni e impedirne l’esito favorevole ai movimenti sociali. Infatti, è ipotizzabile che la stessa convocazione delle elezioni provochi da subito la fibrillazione dei mercati, data la possibilità di un cambiamento radicale di governo.
La reazione dei mercati all’esito elettorale sarebbe subitanea, con l’innalzamento dello spread [4] e con i grandi patrimoni, che, allarmati, cercherebbero di portare all’estero le proprie ricchezze; il tutto si ripercuoterebbe sulla bilancia dei pagamenti e quindi sulla solvibilità dello Stato italiano, peraltro già gravato da un alto debito pubblico.
Analogamente allo scenario sopra considerato, il nuovo governo mette in atto misure volte alla trasformazione dell’economia e della società in senso dichiaratamente anti-liberista, in questo accompagnato – e vigilato – da una mobilitazione popolare attiva e permanente.
Poiché di un solo Stato e di un unico governo si tratta, le misure messe in campo provocano la discesa in campo diretta dell’Unione europea, che minaccia l’apertura di procedure d’infrazione, per mancato rispetto del Fiscal compact e per la violazione di tutti i parametri fissati rispetto al deficit e all’indebitamento.
Poiché l’Italia – sia per peso economico, sia per peso politico – non è la Grecia, la disobbedienza arriva a minacciare l’intera eurozona, creando una situazione insostenibile, con il concreto rischio che tutta la ricchezza presente nel Paese cerchi la fuga all’estero, favorita dal regime di libera circolazione dei capitali.
Per fermare l’emorragia – è questa una prima ragione della necessità di una popolazione attiva, mobilitata e consapevole – il governo italiano deve prendere alcune misure in tempi molto rapidi, procedendo per decreto.
E, siccome la rapidità odierna con la quale, in tempi di finanziarizzazione spinta dell’economia, si possono spostare capitali da una parte all’altra del pianeta non ha precedenti, una prima misura da applicare è quella di imporre ai capitali in ingresso, o già presenti sul territorio italiano, un deposito di garanzia (abbastanza consistente), che sarà restituito solo a fronte di alcune condizioni, a partire, per esempio, dalla permanenza temporale di almeno un anno.
Una seconda misura da adottare rapidamente è il controllo dei movimenti di capitale, attraverso il contingentamento delle somme che possono essere prelevate dalle banche da parte dei privati (poiché i privati sono anche i singoli e le famiglie, è questa una seconda ragione della necessità di una popolazione che sia consapevole del fatto che le misure ricadono su tutti, ma hanno lo scopo di ristabilire la priorità dell’interesse generale, e che sappia sottrarsi alle campagne di stampa e mass media, che urleranno contro l’autoritarismo del nuovo governo).
Queste misure dovrebbero evitare la fuga di capitali, ma non risolverebbero l’altra parte del problema: se, infatti, da una parte, i capitali non escono, dall’altra neppure entrano, non essendo più l’Italia un territorio appetibile per gli investimenti speculativi.
Il nuovo governo dovrebbe quindi, per un primo periodo non breve, contare sulle proprie risorse interne.
In questa direzione, il governo dovrebbe produrre una ricognizione sulla condizione sociale del Paese, dichiarando come molti dei diritti fondamentali delle persone – al lavoro, all’istruzione, alla sicurezza sociale, alla salute, all’ambiente salubre – non siano stati garantiti, o siano stati conculcati, da decenni di politiche liberiste e di austerità; e, appellandosi all’art. 103 della Carta dell’Onu, dovrebbe approvare una moratoria sul pagamento degli interessi sul debito, e avviare un audit indipendente sul debito pubblico, per stabilirne le quote di debito «illegittimo» e di debito «odioso», utilizzando le somme risparmiate per ripristinare i diritti espropriati, in un contesto di riconversione ecologica e sociale dell’economia.
Con questo passaggio, il nuovo governo potrebbe utilizzare subito i 60-70 miliardi-anno, sino ad allora destinati al pagamento degli interessi sul debito, ma, contemporaneamente, com’è facilmente intuibile, la situazione della relazione con l’Unione europea diverrebbe drammatica, con il sistema destabilizzato e i «mercati» nel panico.
In questa fase, il nuovo governo dovrebbe cercare di rompere il fronte dei creditori, dichiarando l’intenzione di onorare alcuni debiti e non altri – collettivamente decisi – o di essere pronto a rispettare i propri impegni, solo a determinate condizioni: drastica riduzione del costo degli interessi, diversa temporalità delle scadenze, fine dei ricatti legati all’indebitamento.
Oltre alle risorse recuperate con la moratoria sul pagamento degli interessi, il nuovo governo sa di poter contare sull’avanzo primario (entrate di bilancio superiori alle uscite, al netto della spesa per il pagamento degli interessi sul debito), che il nostro Paese ha realizzato quasi ininterrottamente dal 1990 a oggi; sulla ricchezza finanziaria privata del Paese (circa 4,5mila mld di euro, che salgono a 10,5mila mld se vi si aggiunge la ricchezza immobiliare); sul patrimonio pubblico del Paese; sul risparmio privato gestito da Cassa Depositi e Prestiti (oltre 250 miliardi).
Potrebbe inoltre recuperare risorse, approvando risparmi forzosi imposti a banche e società d’assicurazione, obbligandole all’acquisizione dei titoli di Stato. Infine, poiché quasi sicuramente la Bce risponderebbe «picche» a qualsiasi richiesta di ulteriori risorse, il nuovo governo potrebbe riappropriarsi della Banca d’Italia, mettendo fine all’indipendenza della stessa dal potere politico.
Con tutte le risorse reperite, il governo potrebbe dare il via – anche se per un tempo non indefinito – a tutti i programmi economici anti-liberisti e per una riconversione ecologica e sociale, rafforzando il consenso sociale interno e la mobilitazione attiva della popolazione.
Superata la fase dell’emergenza, occorre tuttavia capire come rendere stabili i processi di trasformazione avviati, e, dunque, come rendere non episodico, né emergenziale, il problema del reperimento delle risorse. Tutto questo diviene possibile solo mettendo mano a una radicale riforma fiscale che inverta quanto avvenuto negli ultimi quarant’anni di ininterrotte politiche a favore dei ceti ricchi.
Alla campagna massmediatica, sicuramente avviata dalle forze di opposizione, occorrerà ricordare come negli Usa iper-capitalisti, negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, i ceti più ricchi erano gravati da un’aliquota superiore al 90%, senza che nessuno si scandalizzasse, o gridasse al comunismo.
Contemporaneamente, e sempre per i ceti più alti, andrebbe introdotta una tassa patrimoniale elevata, secondo il principio che chi più ha ricavato profitti da decenni di politiche di austerità deve farsi carico del costo collettivo del ripristino dei diritti per le fasce deboli della società, nonché della trasformazione in senso ecologico e sociale dell’economia.
L’insieme delle misure applicate è più che sufficiente a garantire una situazione di forte fibrillazione sociale interna, con le grandi imprese e i capitali finanziari schierati decisamente contro il processo di cambiamento, e altrettanto intensa fibrillazione esterna, con l’Unione europea, e gli Stati più forti interni a essa, direttamente schierati nella contesa.
E, tuttavia, l’inversione di rotta non sarebbe ancora completa. Perché ciò che va ulteriormente rivoluzionato è il sistema bancario e finanziario, che, in Italia, è stato attraversato da una totale privatizzazione, passando, dal 74,5% di controllo pubblico sulle banche nel 1992, all’attuale zero per cento.
Di conseguenza, diviene necessaria la socializzazione progressiva delle banche privatizzate, per rimettere le risorse finanziarie al servizio della trasformazione sociale, nonché il controllo pubblico della circolazione monetaria, utilizzando i 14.000 sportelli di Poste Italiane per garantirne la disponibilità diffusa.
È a questo punto che i nodi potrebbero venire al pettine, perché l’Ue reagirebbe molto duramente alla disobbedienza verso il principio della libera circolazioni dei capitali, imponendo l’espulsione dell’Italia dall’Unione.
Occorre dire, a questo proposito, che un’ipotesi differente – riconducendo questo scenario a quello descritto in precedenza – potrebbe realizzarsi se l’Italia non si trovasse più sola, bensì fosse riuscita a modificare, attraverso l’attivazione di mobilitazioni popolari in altri paesi, e l’attività diplomatica verso alcuni degli altri governi, il conflitto senza quartiere fra Italia e tutti gli altri in un rimescolamento delle posizioni.
Ma poiché ciò non è né automatico, né scontato – come la crisi greca ha insegnato – occorre immaginare i passi successivi, mantenendo il parametro dell’isolamento del governo italiano. La nuova fase sarebbe di conseguenza caratterizzata dal ritorno alla lira, accompagnato da alcune misure urgenti.
La prima di queste dovrebbe essere la non convertibilità della lira per le famiglie e le imprese per un periodo di tempo necessario; una misura che non ostacolerebbe il commercio internazionale, perché le imprese che necessitano di valuta estera potranno riceverla dalle banche socializzate, e permetterebbe di combattere la fuga di capitali e le manovre speculative messe in campo dai mercati.
Una seconda misura diverrebbe l’aggiustamento del tasso di cambio della lira in funzione delle priorità politiche.
Ovviamente, l’avvento della lira comporterebbe una svalutazione della stessa, con l’effetto di aumentare la competitività delle produzioni destinate all’export – non va dimenticato come l’Italia sia seconda solo alla Germania nel rapporto positivo export/import – e, per contro, di aumentare pesantemente il costo delle importazioni.
Sia per la necessaria transizione ecologica, sia per rispondere alla situazione economica, che, arrivati a questa fase dello scenario, si verrebbe a creare, il passo successivo diventerebbe quello del cambiamento dei consumi e degli stili di vita, attraverso la definizione democratica e collettiva di quali, fra i beni sinora importati, siano indispensabili, quali siano utili, e quali vadano classificati come superflui.
Promuovendo politiche di riduzione del fabbisogno per i primi (energia, soprattutto), applicando dazi sui secondi per favorire la nascita di una produzione endogena degli stessi, e abbandonando il consumo di tutto ciò di cui si può fare a meno (ed è questa la terza ragione per la quale è necessaria una popolazione consapevole e attiva).
Avrà esito positivo il processo che, con lo stimolo delle riflessioni di «Le Monde Diplomatique», abbiamo provato a delineare? Nessuno può saperlo e, ovviamente, la realtà concreta presenterà tali e tante altre variabili da tenere in considerazione, che ciò che sin qui abbiamo descritto, rappresenta non più di un «gioco di società». Ma, come tutti i giochi, con alcuni significati importanti.
Non abbiamo da perdere che le nostre catene
Diverse sono le ragioni per le quali abbiamo deciso di inserire questo percorso immaginato al termine della riflessione sin qui fatta. La prima è dettata dalla necessità di far scendere la teoria dal cielo del «dover essere» alla terra del «che fare», per stimolare un confronto non astratto sulla drammaticità della fase attuale e sulla complessità della matassa da dipanare, per intravedere e praticare nuove via d’uscita.
Basti pensare alla divaricazione profonda fra la realtà odierna e anche solo le precondizioni per l’apertura di un conflitto, delineate negli scenari descritti, per capire la necessità di attivare un profondo lavoro sociale e politico, senza inseguire, da una parte, scorciatoie istituzionaliste, che non tengano conto della necessaria mobilitazione sociale per conseguire una reale trasformazione e, dall’altra, soluzioni tecnico-catartiche, come l’uscita dall’euro, che, dovrebbero, di per sé determinare il cambiamento auspicato.
Una seconda ragione muove dalla necessità di stare al passo coi tempi, adeguando l’analisi delle trasformazioni nel modello produttivo, nei rapporti sociali e nella democrazia prodotte dal capitalismo, nella sua fase della finanziarizzazione spinta. Modificazioni che non consentono nessun tergiversare nostalgico sul «paradiso perduto» dello stato sociale keynesiano, per ripristinare il quale si vorrebbero ritracciare confini statuali, politici e simbolici, in grado di riprodurre un compromesso fra capitale e lavoro, superato dalla storia e dalle dinamiche sociali. Solo guardando avanti e oltre si potranno intraprendere nuove strade.
Una terza ragione origina dalla consapevolezza di come gli enormi cambiamenti che l’Europa, e non solo, dovrà affrontare, dalla rivoluzione tecnologica, al cambiamento climatico, alle migrazioni di massa, richiedono un pensiero lungo e la necessità di un lavoro politico diffuso dentro la società, perché ad oggi nessuno può realisticamente pensare che le trasformazioni sopra descritte come necessarie, possano ricevere il consenso sociale in tempi brevi.
L’entità di questi cambiamenti produrrà un ulteriore peggioramento delle condizioni sociali ed ecologiche, fino alla possibile loro irreversibilità, se sarà gestita dalla logica estrattivista del grande capitale finanziario; ma, dentro un ciclo di nuove lotte e mobilitazioni sociali, potrebbe rivelarsi un’inedita opportunità per una reale fuoriuscita della società dai rapporti capitalistici di produzione e riproduzione sociale.
Lottare contro i mercati si può e, per poterlo fare, è necessario attrezzarsi per tempo. I grandi interessi finanziari stanno già preparandosi ad affrontare questi eventi dal punto di vista degli utili e della reddittività; saremo altrettanto pronti ad affrontarli dal punto di vista della vita, dei beni comuni, dei diritti sociali e di un futuro dignitoso per tutte e tutti?
Sapremo dire con determinazione che la nostra Europa inizia dove finisce la loro? «Perché salite sui tetti?» fu la domanda posta a un operaio durante l’occupazione della sua fabbrica. «Perché da lì si vede l’orizzonte» fu la risposta.
Note

  • [1] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 2014.
  • [2] Ibid.
  • [3] R. Lambert, S. Leder, Lo scenario di un braccio di ferro con i mercati, «Le Monde Diplomatique», ottobre 2018.
  • [4] Differenza tra il tasso d’interesse applicato ai titoli di debito emessi da un determinato paese (in questo caso l’Italia) e quello applicato ai titoli emessi da un altro paese (in Europa, la Germania).

Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online l’8 maggio 2019 e si tratta di un estratto dal volume Europa alla deriva. Una via d’uscita tra establishment e sovranismi di Marco Bersani, in libreria per DeriveApprodi.

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