Mio fratello muore in mare: a Rimini un evento di cittadinanza umanitaria

21 Giugno 2019 /

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di Sergio Caserta
È la prima domenica veramente estiva, i bagnanti affollano le spiagge di Rimini per godersi sole e mare, fa caldo ma non c’è afa, una sottile brezza rende molto piacevole la bella giornata di sole. In un angolo del litorale, dove la spiaggia s’interrompe sul porto canale proprio sotto la grande ruota panoramica, un gruppo di persone radunate in cerchio distribuisce fogli e figurine colorate. Sono di tutte le età, ci sono scout, un prete, militanti di diverse associazioni laiche e cattoliche, c’è Libera, il Coordinamento democrazia costituzionale, la Caritas diocesana, le Acli, l’Agesci, Pacha mama e vite in transito, Libertà e giustizia e la Cgil, Operazione colomba, il centro culturale Paolo VI, L’associazione comunità Giovanni XXIII, il Masci, l’Agecs, l’ANOLF, il CNGEI-
Il tutto è molto semplice e composto: si accende un microfono, si elencano gli aderenti al programma e si recita un brano tratto da un libro di Erri de Luca: “Le coste del mediterraneo si dividono in due, di partenza e di arrivo, però senza pareggio. Più spiagge e più notti d’imbarco, di quelle di sbarco, toccano Italia meno vite di quante salirono a bordo. A sparigliare il conto la sventura, e noi, parte di essa. Eppure Italia è una parola aperta, piena d’aria”. Note di geografia.
Poi a turno si leggono i nomi dei migranti annegati in mare, un mese ogni settimana, oggi novembre 2017 e se ne leggono trecento, perché i migranti quelli che sprofondano nel mediterraneo, sono persone con nomi e cognomi, vite e non numeri come le aride statistiche recitano. Mentre scorrono questi nomi immancabilmente di intonazione africana, araba, orientale, Abdul, Mohamed, Fada, Garolin, Rexep… si lanciano per terra figurine colorate di umani, donne, bimbi, uomini che man mano riempiono lo spazio dentro il cerchio. È una lieve cerimonia del riconoscimento non mesta, la gente si ferma capisce, i genitori fanno consegnare le figurine ai figli che partecipano alla deposizione.
Così in questo angolo di porto, ogni domenica alle 18.30 da un po’ di tempo, Mio fratello muore in mare cioè queste persone intendono simbolicamente ricordare a tutti noi che ciò di cui stiamo parlando, ciò di cui il ministro degli interni (o dell’inferno?) e le pavide ombre dei suoi colleghi di governo si stanno occupando è un grande immenso genocidio. Trentaquattromila affogati in questi anni dicono le fredde statistiche, una città come San Lazzaro di Savena che si svuota, e quelli che non sono morti in mare sono trucidati nel deserto e poi nelle carceri libiche.
E allora dov’è la pietà? Se li avessimo accolti tutti questi trentaquattromila ci saremmo impoveriti? sarebbe stata a rischio la nostra incolumità occidentale? Viene da piangere che se pensassimo che tanti giovani, bambini e donne, potrebbero essere i nostri figli in mare, ma non ci vogliamo pensare, perché il governo è lì per non farci pensare assumendosi lo sporco compito in cambio di un bel po’ di potere.

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