di Maurizio Matteuzzi
La prima manche è stata (stra)vinta. Ma il difficile viene adesso. E non solo per il “secondo turno” del 26 maggio quando di nuovo gli spagnoli andranno alle urne per una triplice elezione – municipali, regionali, europee – che potrebbe confermare o correggere l’esito delle politiche del 28 aprile.
Infatti è opinione comune che il leader socialista Pedro Sánchez, il trionfatore del “primo turno” (28.7%, da 84 a 123 seggi), che è anche primo ministro in carica, non farà niente rispetto all’investitura parlamentare alle Cortes e al nuovo governo fino a quando l’abbuffata elettorale non si sarà conclusa. Dopo una campagna elettorale feroce e infuocata, da vincitore, ha ricevuto al palazzo della Moncloa, sede del premier, i leader dei tre principali partiti finiti dietro al PSOE. I due di destra – Pablo Casado del Partido Popular, il grande sconfitto che ha dimezzato i seggi alle Cortes (da 137 a 66), e Albert Rivera di Ciudadanos, che pur avendo incrementato i seggi (da 32 a 57) ha fallito il suo principale obiettivo: il sorpasso del PP – e quello di sinistra – Unidas Podemos di Pablo Iglesias, che corroso da rivalità interne e coi gruppi che era riuscito ad agglutinare dopo il 2015, ha perso molti seggi (da 71 a 42) pur confermandosi come un fattore decisivo per la formazione di una maggioranza di governo.
Se ne riparlerà ai primi di giugno e sarà un’estate lunga e torrida. Perché pur avendo (stra)vinto la prima manche, Sánchez non ha la maggioranza assoluta alle Cortes e per arrivare alla fatidica quota di 176 voti sui 350 deputati dovrà stringere accordi sia nel caso di una coalizione formale, a cui lo spinge con forza Podemos invocando un governo di sinistra e “di progresso”, sia nel caso di un monocolore socialista di minoranza come quello dal giugno 2018 – dopo la mozione di sfiducia che costrinse il “popolare” Mariano Rajoy alle dimissioni – al febbraio 2019, quando la legge di bilancio fu bocciata, oltre che da PP e Ciudadanos, dal voto vendicativo degli indipendentisti catalani.
Allora Sánchez giocò la carta delle elezioni. Fu un nuovo azzardo perché sembrava che anche la Spagna fosse destinata a soccombere all’incalzare della marea di destra che sta incombendo sull’Europa e non solo. Tanto più che alla destra “storica” del PP e a quella nuova e “pulita” di Ciudadanos, si stava aggiungendo la destra ultrà di Vox dell’ex-“popolare” Santiago Abascal, una sorta di Salvini spagnolo. Imbarcando Abascal, Casado e Rivera hanno commesso un errore fatale, sfruttato da Sánchez, perché le tre destre hanno smosso le paure e le astensioni, le donne e i giovani, e hanno sdoganato Vox: 57 mila voti e 0.23% nel 2015, 2.6 milioni, 10.3% e 24 seggi ora. Al di sotto delle aspettative ma sempre troppo.
Sánchez ha puntato tutto, oltre che sulla paura della reazione di destra, sul programma economico-sociale relativamente progressista già delineato nella sua legge di bilancio, ha parlato poco del conflitto territoriale catalano, che è alla base della più grave crisi politico-istituzionale della Spagna post-franchista, fermo sul rifiuto della secessione unilaterale ma aperto a una riforma dello statuto e della costituzione in senso federale (e accennando a un possibile indulto dei dirigenti catalani scandalosamente in carcere e sotto processo per “ribellione” e “sedizione”). E ha vinto.
Ma ora viene il difficile. Podemos punta a un governo “progressista” di coalizione. Mezzo PSOE, a cominciare dalle vecchie cariatidi come Felipe González e Alfonso Guerra, punta a una grande coalizione con Ciudadanos (180 voti in totale), in nome della “stabilità” e della “moderazione”, nonostante la base gridi alto e forte “con Rivera mai!”. Idem la CEOE, la Confindustria, e l’IBEX, la Borsa, che temono l’entrata di Podemos e la riesumazione di una sorta di “fronte popolare”. Idem le banche spagnole e internazionali (fra cui anche la svizzera UBS).
Per ora Sánchez prende tempo. La tendenza sembra quella di un governo monocolore con dentro “indipendenti” graditi a sinistra (Podemos) e a destra (Ciudadanos). Un altro punto critico sono i voti, che potrebbero essere necessari, dei partiti regionali indipendentisti (i catalani). Insomma sarà molto complicato. Bisogna convivere con l’instabilità ed è la conferma definitiva che l’era del bipartitismo su cui è stato costruito il sistema spagnolo uscito (e condizionato) dal franchismo è finita. Anche in Spagna si balla. Tirando un bel sospiro di sollievo.