di Pier Giorgio Gawronski
Il 16 aprile è arrivato in libreria la nuova traduzione italiana della Teoria Generale e di altri 28 brillanti saggi di John Maynard Keynes (molti inediti in Italia), curata da Giorgio La Malfa. L’edizione è corredata da 300 pagine di introduzione, biografia e approfondite note (redatte con Giovanni Farese). Filo conduttore del volume è il pathos politico di Keynes: emerge per esempio nella Lettera a Roosevelt del 1933, o quando, in Possibilità economiche per i nostri nipoti, 1929, si schiera “contro i due pessimismi”: quello liberista (che, temendo di danneggiare un sistema fragilissimo, non osa intervenire in modo incisivo) e quello totalitario (che considera la società aperta irriformabile).
Il titolo della introduzione di La Malfa, Saggezza nuova per una nuova era, sottolinea la modernità del pensiero di Keynes. In una recensione sul Corriere della Sera, un Michele Salvati ecumenico mette in guardia dal trarre insegnamenti stringenti per l’oggi: “La situazione odierna, in Italia, in Europa, nel mondo, è profondamente diversa da quella sulla quale Keynes ebbe a riflettere. Conflitti rovinosi non minacciano l’ordine internazionale. E siamo nel mezzo di una rivoluzione tecnologica così profonda che non riusciamo a capire come la società del prossimo futuro riuscirà a dar lavoro ai suoi cittadini”. Ma a ben vedere, le novità di oggi non sono poi tali: la Storia non si ripete, ma fa rima! (Mark Twain). L’agnosticismo di Salvati rischia di sbiadire la drammatica, pungente attualità del grande economista inglese.
In verità, sappiamo anche alcune altre cose sul rapporto fra Keynes e l’oggi, oltre a quelle generali e non controverse – “un capitalismo temperato da interventi pubblici… nel contesto di un ordine politico liberaldemocratico, può trovare la migliore soluzione possibile ai problemi della convivenza umana” – cui accenna Salvati. Per esempio, sappiamo che la teoria della gestione della domanda aggregata di Keynes è stata molto sviluppata e raffinata (quindi attualizzata) dagli economisti venuti dopo.
“Sappiamo” inoltre che Keynes affronterebbe le moderne depressioni con politiche di sostegno alla domanda, non con l’austerità e la supply side economics dei liberisti e della gauche caviar europea. Nell’intento di “normalizzare” Keynes, Pierluigi Ciocca (sul Sole 24Ore) lo schiera “contro le spese correnti in disavanzo”, e per “una banca centrale indipendente”: non è così! Keynes non è per uno Stato indebitato nel lungo termine, perché vuole l’alternarsi di surplus e deficit; ma contro le depressioni chiede un bilancio in deficit senza “se” e senza “ma”.
Ma oggi metterebbe in guardia i populisti: le politiche espansive (incluso scavare buche nella sabbia e poi richiuderle) risolvono le depressioni non in modo meccanico bensì nella misura in cui sono calibrate per migliorare le aspettative e ridurre incertezze e rischi. Infine, Keynes ogig sottolineerebbe che le aspettative che contano non sono la fiducia frutto di austerity, hard money, e laissez-faire – combinazione evocata inutilmente per anni nel 1929-33 dal presidente Usa Hoover e nel 2010-2011 dalla Bce di Jean Claude Trichet – bensì le aspettative reddituali individuali. Quelle che, per esempio, il Jobs act del governo Renzi ha contribuito a deteriorare.
Per restare all’esempio del Jobs Act, Keynes non ignorava che la mobilità dei fattori produttivi (promossa dal Jobs Act) aumenta l’efficienza generale del sistema quando vi sono: 1) forti variazioni nei vantaggi comparati o nelle preferenze dei consumatori e 2) la piena occupazione, che limita la disponibilità di lavoratori nei settori che vorrebbero espandersi. Ma ci ha spiegato che questo non vale quando c’è ampia disoccupazione. Una delle sue tante lezioni che sono state dimenticate – senza essere contestate con argomenti – dagli “Hooveriani” legati all’euro. Perciò è lecito presumere che oggi Keynes avrebbe contrastato quelle stesse ricette liberiste che contrastò da vivo.
Nella conferenza di Bretton Woods del 1944, Keynes sostenne l’opportunità di un sistema globale di cambi fissi, ma riaggiustabili, e con forti controlli dei capitali. Questo basta a far dire a chi lo vuole strumentalizzare che oggi egli sarebbe un fautore dell’euro. In realtà, negli anni ‘20 e ‘30, individuò nei cambi sopravvalutati una causa fondamentale e primaria della disoccupazione. Denunciò che le classi popolari erano crocifisse su una croce di oro (cambi fissi con la moneta unica dell’epoca); chiese il superamento di quel “barbaro” sistema e nel 1931 festeggiò la svalutazione della sterlina, poi del dollaro e del franco. Nel 1931 era virtualmente il solo a non prevedere catastrofi nel Regno Unito, bensì una ripresa. Ebbe ragione contro i luoghi comuni. Così come oggi è un luogo comune che uscire dall’ euro provocherebbe solo disastri.
Da tempo assistiamo a una campagna di stampa denigratoria contro la svalutazione, che è la medicina di cui da anni ha bisogno disperato la nostra economia. Non è dimostrabile, ma credo che se Keynes fosse vivo si batterebbe per lo smantellamento o l’uscita dall’euro (non dall’Ue): amava battersi solo contro tutti quando sapeva di aver ragione. Ma grazie ai suoi insegnamenti, oggi avrebbe al suo fianco molti economisti e premi Nobel.
Spingere troppo sull’ecumenismo non rende giustizia a Keynes: non era uomo per tutte le stagioni e per tutte le politiche. Resta l’amara conclusione di Miche Salvati sui governanti inadeguati, “capaci di rovinare anche la migliore strategia macroeconomica”: problema irrisolvibile senza una vera separazione “liberaldemocratica” fra governo e Parlamento. Speriamo che l’operazione culturale avviata dall’edizione della Teoria generale curata da La Malfa porti frutti.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano il 17 aprile 2017