di Tomaso Montanari
Demolizioni di futuro. È questa la perfetta definizione di ciò che continua ad accadere in Emilia, a quasi sette anni dal terremoto del maggio 2012. Edifici storici, tutelati dalla legge e ricchissimi di significati vengono fatti brillare perché fortemente lesionati: una sorta di colpo di pistola alla testa ad organismi fiaccati, ma che sarebbe perfettamente possibile salvare. Una pulizia etnica del passato dovuta non alla povertà, ma alla ricchezza senza cultura di una regione che pensa già a nuovi capannoni e si prepara alla “secessione dei ricchi”, insieme a Veneto e Lombardia.
Nell’immediato dopo terremoto a saltare in aria furono i campanili (indimenticabili le immagini dell’esplosione di quello di Poggio Renatico), municipi (come quello di Sant’Agostino, nel Ferrarese, anch’esso minato con la dinamite), case antiche (a Mirandola, per esempio): uno scempio che trovò poi una giustificazione ideologica negli stand del ministero per i Beni Culturali al Salone di Ferrara nel marzo 2013. Il loro titolo, stampato a caratteri di scatola, era: “Dov’era ma non com’era”.
Una provocazione, rincarata dalla presentazione stampata sui pannelli, in cui il vertice del sistema italiano di tutela del patrimonio culturale affermava: “Di considerare questo evento drammatico come un’opportunità. L’opportunità di affermare una cultura architettonica della ricostruzione capace di prendere le mosse dalla reale situazione e consentire la coesistenza tra le preesistenze e gli edifici contemporanei, l’attualizzazione del bene culturale laddove era, dando ad esso nuovi significati vitali”.
Una serie impressionante di bozzetti architettonici, culminante nell’idea di un campanile formato da monumentali forme di parmigiano, chiariva cosa si dovesse intendere per “attualizzazione”. Come ha notato l’urbanista Ilaria Agostini, “il ‘dov’era, ma non com’era’ ha assunto, nella ricostruzione del post-terremoto, grande forza mediatica con il sostegno normativo della legge della Regione Emilia Romagna n. 16/2012, che svincola la pianificazione comunale dalla tutela dei tessuti urbani e degli edifici storici.
“Dalla legge – prosegue Agostini -, secondo il consiglio regionale di Italia Nostra, ‘scompare’, definitivamente cancellata, la nozione stessa di centro storico, costituito dall’intero tessuto degli edifici che il tempo ha stratificato nella parte antica della città, creando un unicum fatto di edifici, monumenti, palazzi, spazi pubblici, piazze, del quale a malapena si vogliono salvare i pochi edifici vincolati ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, ritornando ad una concezione superata da decenni, secondo cui sono i soli monumenti ad avere il diritto ad essere conservati”.
E, d’altra parte, cos’è un monumento? L’ex biscottificio Bagnoli, anche detto Caffè Mimì (in via Guardia Nazionale a San Giovanni in Persiceto), raso completamente al suolo nel 2017, o l’albergo la Posta (in Circonvallazione Dante dello stesso centro emiliano), sorto all’inizio del ‘900 e abbattuto nemmeno un mese fa, erano degni o no di sopravvivere? Nel dibattito alla Costituente che portò all’articolo 9 della Costituzione (che al secondo comma dice che “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”), Concetto Marchesi spiegò che “il monumento è una testimonianza di qualche cosa, è un ricordo, una memoria”.
Ecco cosa perdiamo continuando a far esplodere questi umilissimi monumenti: la nostra memoria. Condannandoci ad un alzheimer collettivo. La professoressa Rossella Ariuli, che insegna storia dell’arte in un liceo artistico, è tra quei cittadini che non si rassegna, e continua a denunciare le demolizioni, e gli abbandoni che culmineranno, tra mesi o anni, in altri abbattimenti. Le sue proteste hanno ottenuto il pronunciamento del Segretariato Regionale del ministero per i Beni Culturali, che pochi giorni fa ha scritto al comune di San Giovanni in Persiceto, raccomandando di “preservare” anche “il patrimonio considerato ‘minore’, che costituisce parte irrinunciabile della memoria e
del l’identità di ogni collettività”.
Parole che rischiano di esser dette al vento, data l’attuale, straziante debolezza degli organi di tutela: senza mezzi e senza personale. Eppure salvare quella villa, quell’alberghetto, quella fabbrica avrebbe un valore immenso: perché, è vero, “è un’umile cosa, e non si può nemmeno confrontare con certe opere d’arte, d’autore, stupende, della tradizione italiana. Eppure io penso che questo (edificio, ndr) da niente, così umile, sia da difendere con lo stesso accanimento, con la stessa buona volontà, con lo stesso rigore, con cui si difende l’opera d’arte di un grande autore. (…) Voglio difendere qualcosa che non è sanzionato, che non è codificato, che nessuno difende, che è opera, diciamo così, del popolo, di un’intera storia, dell’intera storia del popolo di una città, di un’infinità di uomini senza nome che però hanno lavorato all’interno di un’epoca che poi ha prodotto i frutti più estremi e più assoluti nelle opere d’arte e d’autore”.
Sono parole di Pier Paolo Pasolini, parole in difesa di un umilissimo selciato di Orte, tratte dal suo struggente documentario sulla Forma della città, del 1973. Quando avrà cancellato tutti questi umili serbatoi di memoria, come rimarrà umana la ricca Emilia?
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano l’11 marzo 2019