di Maria (Milli) Virgilio
Ha suscitato immediate proteste la riforma in senso favorevole al condannato della sentenza nei confronti di un uomo che aveva assassinato la sua compagna per “gelosia”. Così aveva motivato il suo gesto. Da 30 a 16 anni di reclusione il salto è forte.
Il Giudice della udienza preliminare di Rimini aveva condannato a 30 anni. A questa pena era arrivato ritenendo l’assassino responsabile di omicidio, aggravato per aver agito per motivi abietti o futili. La pena prevista per questo caso è quella dell’ergastolo, ma l’imputato aveva chiesto di procedere con il giudizio abbreviato, e questo comporta che l’ergastolo sia sostituito per legge dalla reclusione a trenta anni.
È una specie di sconto/premio che viene attribuito a chi chiede di procedere senza dibattimento, cioè più velocemente, sulla base dei soli atti di indagine. Era stata solo chiesta dalla difesa una perizia psichiatrica per valutare se l’imputato fosse al momento del fatto incapace di intendere e di volere, e dunque non imputabile e non punibile. Il perito psichiatra forense nominato dal giudice aveva escluso ogni causa di non punibilità, anche se aveva affermato che l’assassino aveva agito in preda a una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”. Tale condizione era stata del tutto irrilevante per il giudice della prima sentenza, ma non è stato così per la Corte d’assise d’appello di Bologna.
In appello la Giuria ha confermato la condanna per l’omicidio. È stata anche confermata l’aggravante dei futili motivi, ma i secondi giudici hanno ritenuto che l’autore fosse meritevole delle attenuanti generiche e che queste attenuanti avessero lo stesso peso della aggravante contestata dei futili motivi, elidendosi a vicenda. In tal caso il delitto deve tornare a essere punito con la pena base, che per l’omicidio base è al massimo di 24 anni. Su questa pena hanno dovuto applicare la diminuzione di un terzo per il giudizio abbreviato. È così che dall’ergastolo si è passati a 16 anni.
Hanno sbagliato i giudici di oggi o quelli di ieri? Quale è stato il ruolo della consulenza peritale? Oppure è la legge che va modificata? Qualcuno dice che un difetto sta, a monte, nel giudizio abbreviato: non dovrebbe essere ammesso per i delitti più gravi e efferati, come sono quelli puniti con l’ergastolo. E infatti in Parlamento è da tempo in discussione una modifica in tal senso. Se fosse accolta e applicata a un caso come questo, il primo giudice avrebbe condannato all’ergastolo, e il secondo avrebbe condannato a 24 anni di reclusione. Anche in tal caso la differenza tra i due giudizi sarebbe stata rilevante.
Quindi la nostra attenzione va piuttosto al giudizio in merito alla “gelosia” e alla “soverchiante tempesta emotiva e passionale”. Qui l’unica parola l’ha avuta l’omicida, che ha voluto lui introdurre la versione della gelosia, senza poter essere contestato dalla donna cui ha voluto negare vita, esistenza e parola. E gli ha giovato, eccome. Perché gli ha fruttato sia le attenuanti generiche sia la equivalenza, che ha vanificato l’aggravante, pur fondata sulla gelosia. Avrebbero potuto invece ritenere prevalente l’aggravante, così confermando la pena del primo giudice.
Qui entra in gioco il ruolo preminente riconosciuto dai giudici alle perizie e comunque alle valutazioni del sapere psichiatrico. Infatti, a ben vedere, i giudici avrebbero potuto qui riconoscere le attenuanti generiche anche senza rinviare alla perizia e alla “tempesta”. In sentenza hanno citato il tentativo di risarcimento da parte del condannato e la presa di coscienza dell’enormità del fatto. Questi elementi di giudizio di natura giuridica potevano essere sufficienti. Forse. Ma i giudici hanno preferito poggiarsi comunque sulla perizia, rinviando al sapere psichiatrico e dunque poggiando la decisione su sentimenti e emozioni imprecisate, riconducibili allo stereotipo culturale dell’uomo geloso della “sua” donna, in questo modo culturalmente accreditato e legittimato. Il Giudice di Rimini aveva seguito la via opposta, ritenendo futile e aggravante la giustificazione della gelosia.
Quale è la pena “giusta”? Il discorso si deve fare più ampio del singolo caso. Purtroppo dobbiamo costatare che non abbiamo in Italia raccolte di dati che indichino i numeri degli assassini di donne che invocano a scusante la propria non imputabilità e che, per non essere puniti, dicono di aver agito in stato di incapacità di intendere e di volere, accampando una deresponsabilizzante malattia mentale.
In quanti di questi processi viene avanzata dall’imputato la richiesta di essere sottoposto a perizia? Quante di queste richieste vengono accolte dai tribunali e dunque vengono disposte consulenze di esperti? Quali gli esiti delle consulenze d’ufficio, sia con riguardo alla imputabilità sia con riguardo – come in questo caso – alle varie attenuanti e aggravanti e alla entità della pena?
Ma neppure abbiamo dati statistici scientifici che ci dicano in quale considerazione tali perizie vengano tenute dai tribunali: quante vengono accolte e quante disattese? Certo la psichiatria forense – attendo smentite – è quasi esclusivamente nelle mani di esperti maschi. Non così ormai la magistratura e la avvocatura.
Che accoglienza trovano, anche in giudici donne, valutazioni maschili di malattia mentale nei casi di violenze maschili contro le donne? Se a commettere violenze sono i mostri, uomini diversi e malati, la mascolinità è salva. Ma così si consegue anche l’obiettivo di deresponsabilizzare l’autore malato, che può scaricare sulla propria malattia ogni colpa.
Già che ci siamo, suggeriamo una ulteriore statistica: quanti perpetratori di violenze contro donne si fanno difendere da avvocate donne? Quante donne parti lese di violenza maschile si fanno difendere da uomini?
Questo articolo è stato pubblicato da Studi sulla questione criminale il 5 marzo 2019