Le prossime elezioni regionali in Sardegna: intervista al candidato Massimo Zedda

21 Gennaio 2019 /

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di Marco Ligas
Le prossime elezioni regionali in Sardegna avvengono in un momento particolarmente difficile per il paese e per la nostra isola. Sono molti i cambiamenti verificatisi in questi ultimi anni, non solo politici ma anche sociali e culturali. Prevalgono segnali di impoverimento del popolo sardo e di crisi della democrazia. Con l’intervista che ti propongo non intendo soffermarmi sull’insieme delle questioni che puntualmente si affrontano nel corso delle campagne elettorali. Mi soffermo solo su alcune.
Parto dal tema lavoro ritenuto da tutti il principale. È da decenni che in Sardegna registriamo tensioni nei rapporti tra i lavoratori, i promotori delle attività industriali e i rappresentanti delle istituzioni; intanto cresce una disoccupazione sempre più preoccupante.
In queste relazioni si è consolidata la dipendenza delle nostre istituzioni nei confronti di una classe imprenditoriale arrogante, impegnata principalmente nella ricerca di attività speculative e di incetta di risorse pubbliche. Ministri e sottosegretari nonché assessori regionali, in difficoltà nel delineare progetti alternativi di sviluppo e di crescita, hanno ceduto frequentemente ai ricatti di questo padronato senza imporre alcuna garanzia o controllo sugli aiuti concessi.

Ti chiedo se ritieni ancora ragionevole la richiesta del mantenimento di aziende e di attività che non presentano più alcuna possibilità di crescita pur sapendo che la loro prosecuzione non solo provocherà un ulteriore degrado del territorio ma talvolta, come a Domusnovas, sono finalizzate alla produzione di armi e di incitamento alle guerre come sottolinea opportunamente il Comitato per la Riconversione dell’RWM per la pace e il lavoro sostenibile.

Il punto fondamentale è mettere da parte il ragionamento, endemico in Sardegna come ovunque, sulla contrapposizione tra riconversione e mantenimento dei posti di lavoro. Vale per l’Rwm come per tante altre realtà di cui abbiamo avuto testimonianza nei nostri territori. È il motivo per cui dobbiamo essere capaci di pensare e avviare progetti di riconversione, anche sperimentali, nel caso specifico della fabbrica di Domusnovas anche in collaborazione con gli organismi internazionali che promuovono la pace e la sicurezza internazionale, con cui si possa dare risposta alla necessità delle persone che lì dentro hanno un posto di lavoro con cui mantengono le famiglie e che allo stesso tempo si sentono accusati di essere fabbricanti di morte. In questo senso sarà fondamentale da subito la nostra capacità di pensare e costruire soluzioni alternative che ci permettano, nel momento in cui le fabbriche chiuderanno o decideranno di trasferirsi altrove, di evitare le condizioni di deserto in cui ci siamo già trovati per decenni. L’obiettivo, in ogni direzione, è quello di creare occasioni di lavoro a condizioni giuste e sostenibili.

Collegato al tema del lavoro c’è quello relativo alla Riforma della Regione. Nelle ultime 7 legislature regionali i candidati alla Presidenza della Regione hanno tutti promesso, nell’ambito del programma elettorale, la riforma istituzionale dell’apparato amministrativo. Nessuno dei Presidenti eletti però è riuscito nell’impresa. L’organizzazione regionale è ancora disciplinata da una legge obsoleta del 1977, lontana dall’esigenza di uno snellimento delle procedure “amministrativo-burocratiche”. Quali sono le tue proposte per correggere questi difetti e impostare procedure alternative?

Ho già avuto modo di dirlo: non è possibile affrontare le sfide di un mondo che corre veloce secondo una legge che organizza l’attività della Regione di 40 anni fa. Lo sviluppo può ripartire da un nuovo rapporto tra Enti locali e Regione, con un approccio che guardi alle tante iniziative che nelle nostre comunità stanno generando posti di lavoro. Quella che ho in mente è un’amministrazione regionale che sia al fianco dei Comuni, una Regione che cresca partendo dal basso, anche con cessione di personale, immobili e risorse a favore delle amministrazioni locali, nella convinzione che alcuni dei limiti allo sviluppo anche nelle realtà più grandi siano strettamente connessi al mancato sviluppo delle zone interne e dei piccoli Comuni. Aiutare la crescita dei piccoli centri significa aiutare anche lo sviluppo dei più grandi.

La tutela del territorio. Nel corso degli ultimi mesi c’è stata un’insistenza nel voler realizzare aumenti volumetrici nella fascia costiera di conservazione integrale. Questa sollecitazione è avvenuta nonostante sia noto un impedimento di natura costituzionale. Le motivazioni usate per giustificare questi interventi sono sempre le stesse: incentivare il turismo e le presenze turistiche. C’è da chiedersi se le possibilità di crescita del comparto turistico si identifichino esclusivamente con gli incrementi volumetrici in favore delle strutture ricettive anche entro la fascia costiera dei mt. 300 dalla battigia marina. Ma davvero non si può migliorare l’offerta turistica attraverso altre iniziative, a partire per esempio dal radicale miglioramento dei trasporti e dei loro costi in regime di continuità territoriale? E non sarebbe opportuna inoltre una politica tesa sia alla valorizzazione delle aree naturali protette sia alla conoscenza dei beni culturali?

Non solo si può, si deve. Il punto di partenza è non considerare il turismo come un settore a sé stante, separato da tutto il resto e con l’unico obiettivo di portare in Sardegna quanti più turisti possibile. Abbiamo invece bisogno di proporre l’Isola nella sua interezza come un’esperienza, non come un prodotto da vendere: penso a un modello di turismo sostenibile e, allo stesso tempo, a un turista consapevole. Recuperare e riutilizzare edifici già esistenti, senza ulteriore consumo di suolo, può avere una connotazione turistica ma anche e soprattutto urbanistica; migliorare i collegamenti interni può agevolare gli spostamenti dei visitatori dalle coste e produrre benefici nella vita quotidiana per gli abitanti dei Comuni interni; far conoscere la nostra storia, rendere fruibili i nostri beni culturali, valorizzare la nostra enogastronomia ha certamente un alto valore turistico, ma può innescare allo stesso tempo progetti virtuosi di economia locale. Tutto a partire dalle nostre caratteristiche, senza riprodurre modelli invasivi che non ci appartengono.

L’accoglienza e la disobbedienza civile. Nel corso degli ultimi mesi il tema dell’accoglienza ha provocato un dibattito importantissimo sia a livello istituzionale sia fra diverse associazioni e fra tanti cittadini. Lo ha causato il decreto Salvini col rifiuto categorico del dovere morale dell’accoglienza. Diversi sindaci si sono opposti all’applicazione di questo decreto anche al prezzo di conseguenze giuridiche. Ciò che è importante nell’atteggiamento dei sindaci non è solo la consapevolezza di un doveroso atto morale ma anche la convinzione del carattere incostituzionale del decreto Salvini. Insomma, per dirla con Luigi Ferrajoli, la battaglia in difesa della Costituzione è nuovamente aperta, grazie alla coraggiosa iniziativa dei sindaci antirazzisti. Anche Cagliari e la Regione Sardegna possono svolgere un ruolo importante su questi temi dando un sostegno determinante alla lotta per la difesa della Costituzione e della democrazia. Così come dovrebbero impegnarsi da subito per correggere la legge elettorale sarda che è un pessimo esempio del rispetto della Costituzione.

Accoglienza, solidarietà e inclusione sono valori che fanno parte della mia vita e della mia azione politica. La battaglia, in questo caso, è quella che stiamo portando avanti con l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani per una discussione seria con il Governo sui reali effetti di questo decreto, che dal mio punto di vista non farà altro che aumentare l’insicurezza percepita dai cittadini. Credo sia questo l’obiettivo di Salvini nella sua veste di esponente politico: trovare un motivo per spostare costantemente l’attenzione da quanto il Governo di cui fa parte non stia riuscendo a fare, cioè migliorare la vita delle cittadine e dei cittadini.

Mi soffermo infine sulla cosiddetta riforma della sanità sarda che ha suscitato un coro diffuso di critiche e contestazioni: amministratori locali, operatori sanitari, associazioni dei malati, sindacati medici, ANCI, Consiglio delle Autonomie. È stata definita “una elaborazione frutto di una concezione ragionieristica della sanità, finalizzata al taglio della spesa sanitaria, ma che non tiene conto dei bisogni di salute dei cittadini sardi”. In questi anni si è registrato un peggioramento della qualità dei servizi e, fatta eccezione per alcune esempi di alta specializzazione (vedi i trapianti), della stessa assistenza ospedaliera. Per molti il nodo cruciale dell’organizzazione sanitaria sarda è il territorio: l’assenza di adeguati servizi territoriali di prevenzione. Invece si è preferito puntare su una scala di priorità che risponde ad un mero criterio propagandistico: prima l’ATS (ASL unica), poi la rete ospedaliera, quindi l’emergenza urgenza e per ultima, forse, i servizi territoriali. Secondo molti operatori sanitari, la scala delle priorità doveva essere invertita. Cosa ne pensi?

I primi obiettivi devono essere la cultura della salute e la prevenzione. Con ragionamenti e azioni basate sulla promozione di stili di vita sani, sull’educazione alimentare sin da bambini, sull’attività fisica a tutte le età, sul miglioramento dei trasporti pubblici per far diminuire gli incidenti stradali, sulla sicurezza sul lavoro, sulla lotta all’inquinamento, sulla salubrità dei territori. Lavorare, in sostanza, per fare in modo che sempre meno persone abbiano necessità di rivolgersi alle strutture ospedaliere. Quello che deve essere poi garantito a tutti è il diritto a un servizio di cura di uguale livello sui diversi territori, con il rafforzamento della rete territoriale perché si possa avere assistenza senza essere costretti ad allontanarsi da casa e con la possibilità di creare nuove occasioni di lavoro con le professionalità del luogo.

Questo articolo è stato pubblicato dal Manifesto Sardo il 16 gennaio 2019

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