di Silvia R. Lolli
Che cosa ci possiamo aspettare dal nuovo anno? Razionalmente possiamo dire difficoltà non solo di ordine economico, ma soprattutto psico-sociali; le capacità di reazione delle persone al momento critico si perdono nelle solitudini delle nostre città: solitudini generazionali, sessuali, etniche e religiose, formate per virtualità sempre più espanse, spesso disumane. Difficoltà che spesso sfociano solo in violenza.
Le paure si moltiplicano, sono più presenti e, accanto all’incapacità di incontrare l’altro, fanno parte di vite isolate abituate ormai a correre verso un nulla costruito dal consumismo imperante, complice il finanzacapitalismo globalizzato e le politiche sempre più imperialiste e neo-colonialiste camuffate dal globale che non riescono più a mettere i pratica i principi democratici di partecipazione, di uguaglianza, di libertà con diritti, oltre che doveri, per tutti. Neppure nei confronti della madre Terra la politica prova ad invertire il suo corso, visti i provocatori e costosi meeting delle varie agende ecologiche.
Ci possiamo aspettare qualcosa di più positivo dal 2019? Si dice che la speranza sia l’ultima a morire. Certamente un secolo fa l’Europa usciva stremata da quella che fu definita la prima guerra mondiale, anche se da una lettura meno eurocentrica poteva essere tale anche quella pluriennale di indipendenza statunitense, come si scrive al museo di Philadelphia. Fino ad oggi l’aspettativa di vita è aumentata, viviamo di più, ma molti sembrano più sopravvivere, in povertà anche diverse da prima.
Come di consueto gli auguri per il nuovo anno sono sempre per qualcosa di positivo; auspichiamo che si mettano in pratica. Innanzi tutto speriamo in risposte politiche per un mondo più accogliente e meno individualista; un mondo meno votato alle guerre, ai grandi profitti delle fabbriche delle armi o alle industrie inquinanti, ai gruppi costituiti per destabilizzare i paesi in via di sviluppo; un mondo dove i mercati che decidono non siano più quelli finanziari ed economici, ma più quelli legati al lavoro e alle economie circolari.
Auspichiamo territori in cui le persone possano incontrarsi, associarsi, manifestare, dire le proprie idee, nel pieno rispetto delle libertà personali e sociali, grazie ad una politica più aperta e pronta a promuovere la partecipazione di maggioranze oggi represse e non di lobby che pre-determinano i risultati elettorali nelle “democrazie” ormai oligarchiche. Auspichiamo un’inversione di tendenza nel pensare e progettare lo sviluppo umano in linea con i bisogni di un pianeta le cui risorse sono state quasi del tutto erose ed inquinate.
Attuare queste speranze potrebbe darci ancora una visione del futuro, ma dovremmo trovare anche in noi sensibilità, consapevolezza, responsabilità per avviare questa nuova rotta, che vuol dire mettere al primo posto la conoscenza e la cultura, cioè la formazione delle persone che possono così imparare a sentirsi cittadini dei loro territori e del mondo intero.
Sono speranze che in fondo hanno un unico denominatore: alfabetizzare, dare cultura, fare buona scuola in modo universalistico, cioè per tutti. Tuttavia vediamo che la scuola e la formazione in generale sono ancora troppo legate a costruire la persona conforme alla società in cui vive e non ad una società del futuro: si sono perse le utopie per formare alla cittadinanza, ai diritti e a un sapere per sé, svincolato dall’immediato ritorno economico; ciò che conta è il gruppo ed il leader che dice e fa per tutti, con slogan oggi facilmente trasmessi con i social network.
Chi vuole oggi, ma anche domani, una persona, consapevole, responsabile, coraggiosa e capace di pensare ed individuare i propri diritti, assolvere coscientemente i propri doveri, per la quale la partecipazione politica non sia solo un passaggio per risolvere il proprio futuro lavorativo?