di Amina Crisma
Nella giornata in cui si celebra il settantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Parigi, 10 dicembre 1948), mi pare importante ricordare la fertile riflessione, oggi più che mai pregnante e attuale, che su questo tema ci ha offerto Pier Cesare Bori, maestro ed amico scomparso sei anni fa, il 4 novembre 2012: una riflessione che coniuga laicità e religiosità attingendo a fonti molteplici nelle culture d’Oriente e d’Occidente, e che sottraendosi a ogni scontata retorica si lega a una prassi e a un impegno concreti.
Una caratteristica singolare di Pier Cesare Bori, fra le tante che fanno di lui una figura davvero eccezionale nel panorama intellettuale contemporaneo, è la straordinaria vastità delle sue letture, che alimentano un peculiare stile di pensiero spaziando in ambiti e linguaggi diversi – arabo e cinese inclusi – e che esplorano in profondità luoghi molteplici d’Occidente e d’Oriente, da Gregorio Nisseno a Dostoevskij, da Freud a Simone Weil, da George Fox a Ibn Tufayl, da Tolstoj al Laozi, da Pico alla Bhagavadgîtâ ai testi pali buddhisti (ne offre un significativo specimen un suo libro del 2005, Incipit, Cinquant’anni cinquanta libri) [1].
Un’altra è l’internazionalità di un’esperienza di animazione culturale che ha incluso Giappone, Russia, Stati Uniti, e che negli ultimi anni si è snodata fra l’altro da Tunisi a Pechino. Un’altra ancora è il suo radicale rifiuto di qualsiasi retorica: un rifiuto decisamente anomalo negli scenari d’oggi, e che lo accomuna piuttosto ai maestri delle tradizioni sapienziali a lui care di cui si è nutrito nel corso degli anni il suo fertile itinerario ermeneutico.
Bori è morto di mesotelioma da amianto sei anni fa, il 4 novembre 2012 a Bologna, dove ha insegnato dal 1970 Storia del Cristianesimo e delle Chiese, Filosofia Morale e Diritti Umani alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Alma Mater. Da qualche giorno era stato nominato titolare della cattedra UNESCO per il pluralismo religioso e la pace. Poco prima, aveva affidato a un breve testo pubblicato dal Mulino e intitolato CV 1937-2012, il suo curriculum vitae, una sintesi della sua formazione e della sua storia che configura un autoritratto sobrio e autoironico, e che è anche un messaggio di congedo [2].
Inchiesta, a cui egli ha sovente collaborato fin dall’inizio, gli ha dedicato un’ampia rubrica che raccoglie sia molti suoi contributi sia vari scritti su di lui, tutti accessibili nella versione online: a tali luoghi rinviamo il lettore che non ne conosca la vicenda, e che voglia farsi un’immagine almeno parziale e approssimativa di un originale quanto rigoroso percorso umano e intellettuale, schivo e appartato dai clamori della ribalta [3].
Tutte queste connotazioni del suo lavoro, ivi incluso l’atteggiamento antiretorico, distante da ogni usuale magniloquenza, si riscontrano anche nelle sue pregnanti tematizzazioni della questione dei diritti umani: a un’articolata e approfondita riflessione sui loro fondamenti egli si dedica a far tempo dagli anni Ottanta e Novanta, e tale attività teorica si accompagna a un concreto impegno con Amnesty International. Come sottolinea Dino Buzzetti in una bella nota biografica, nella prospettiva di Bori tale questione non è circoscrivibile entro i limiti di un dibattito puramente giuridico, ma postula un più profondo confronto sul piano delle motivazioni [4]. È possibile una formulazione transculturale dei diritti umani, tale cioè da sottrarli all’accusa di essere merely western? E quale rapporto si può configurare fra tradizioni antiche e moderno linguaggio dei diritti?
La risposta a queste domande è offerta da Bori in Per un consenso etico tra culture (1991), che individua nel tema della compassione una risorsa in tal senso essenziale e che, sfatando il luogo comune secondo il quale la Dichiarazione dei diritti sarebbe frutto di un’elaborazione meramente eurocentrica, ne pone in luce l’intrinseca dialettica interculturale, ascrivibile a diverse ascendenze, e non certo riconducibile al presunto monopolio esclusivo di una singola tradizione:.
L’universalità dei diritti dell’uomo non suppone una concezione definita e costante della natura umana, ma piuttosto una idea di natura come attitudine tendenzialmente universale a partecipare al bisogno e alla sofferenza dell’altro (nelle diverse tradizioni: “umanità”, “misericordia”, nella Dichiarazione dei diritti umani: “ragione e coscienza”) [5].
In particolare, in base ai documenti delle discussioni preparatorie della Dichiarazione del 1948, Bori pone in rilievo un aspetto sorprendente, e generalmente sottovalutato, quando non totalmente ignorato: è ren, il “senso dell’umanità” confuciano a tradursi nel termine “coscienza”. Come spiegò il delegato cinese Peng Chun Chang (Zhang Pengchun) che ne propose l’introduzione, si tratta del senso profondo della reciprocità, del “sentimento che esistono gli altri esseri umani” ossia della consapevolezza del vincolo solidale e fraterno che li lega indissolubilmente, e che si deve tradurre in comportamenti ad essa conformi, in termini di sollecitudine verso ciascuno e di assunzione di responsabilità verso l’intera comunità umana nella sua globalità [6].
I diritti umani, dunque, si radicano in aspetti basilari di consenso etico fra culture diverse e in un senso della religio concepita come pluralità delle vie: direttrici che continueranno ad attraversare la riflessione di Bori negli anni seguenti, concretandosi ad esempio nel suo lavoro su Pico e sull’Oratio de hominis dignitate – di cui egli ha fra l’altro promosso la traduzione in cinese e in arabo (2010) [7] – e nella sua ricerca sul tema dell’Imago Dei, intorno alla quale ha animato un largo confronto interdisciplinare e interculturale che ha avuto fra i suoi momenti salienti il convegno internazionale del 2009 In the Image of God: Foundations and Objections within the Discourse of the Human Dignity [8].
Ma anche ulteriori ambiti della sua esperienza vi sono legati, come il gruppo di lettura “Una Via” da lui animato, che si svolgeva su testi di varie tradizioni occidentali e orientali, e come la sua attività di insegnamento in carcere, alla “Dozza” di Bologna, iniziata nel ’98 [9]. Così ne parla in “Essere gharîb in questo mondo” apparso su Inchiesta nel 2004:
Ho cercato questa esperienza non come una iniziativa umanitaria, ma come una verifica di ipotesi culturali e pedagogiche già in precedenza formulate e messe alla prova: la possibilità di un discorso etico e di una formazione etica che potessero reggere alla prova della differenza culturale. (…) Le nostre attività si possono così riassumere: insegnamento: “Filosofia morale d’Oriente e d’Occidente” basata su una sequenza di testi; “Passi verso un ethos condiviso” (…). Laicità, quindi, ma non nel senso di agnosticismo, ma nel senso del “pluralismo delle vie” (…) Si tratta di mostrare che esistono molte vie spirituali, che in tutte occorre perseguire “virtù e conoscenza” (…) In terzo luogo, fiducia nella possibilità di una liberazione attraverso il sapere, fiducia nella “luce che illumina ogni uomo”, fiducia nella pratica della consapevolezza, fiducia nella pedagogia della lettura di grandi testi. (…) Non sappiamo se la prigione sia riformabile, le persone lo sono sempre (e non si parla solo dei detenuti) [10].
La questione dei diritti umani per Bori dunque non è riducibile a slogan semplicistico né è astratta petizione di principio, ma è inscindibile da un’integrale prassi etica e politica, da un discorso condiviso che trasfonde la consapevolezza intellettuale in esperienza relazionale, e che cerca di costruire spazi liberi e redenti di umanità, in adesione a un’idea di spiritualità antiautoritaria concretamente e fattivamente impegnata nel mondo, fra i cui molteplici esempi si annoverano autori a lui cari e da lui assai frequentati come Tolstoj e Simone Weil, e come i fondatori della Società degli Amici George Fox e Margaret Fell, a cui si ascrivono, oltre che le origini delle istanze di libertà religiosa e di tolleranza, le premesse dei movimenti antischiavisti e di emancipazione femminile.
Così, è un duplice versante che si dispiega nella prospettiva di Bori. Per un verso i diritti umani nella formula del dover “agire gli uni verso gli altri in spirito di fraternità” contengono un richiamo a quello sfondo condiviso di solidarietà, di responsabilità verso gli altri, di “doveri verso le creature umane” concordemente tematizzato da antiche culture d’Occidente e d’Oriente e ricordato da Simone Weil ne L’enracinement [11].
Se essi sono dunque in tal senso preparati dalla tradizione etico-giuridica precedente, d’altro canto si configurano come originali nei suoi confronti, poiché la loro genesi ha luogo in un contesto specifico, quello del radicalismo religioso del Seicento, con le sue istanze insopprimibili di protezione del soggetto, a partire dal diritto di libertà religiosa, contro i poteri forti – la famiglia, lo Stato, la Chiesa – che saranno fatte proprie e rilanciate dalla cultura laica dell’illuminismo con Locke, Bayle, Voltaire.
Questa specifica connotazione dei diritti umani nel senso di protezione del singolo rispetto al gruppo è la specificità che, a parere di Bori, non va diluita a favore di un richiamo ad aspetti comunitari, ma è precisamente ciò che li rende interessanti, come conferma l’appellarsi ad essi in culture e mondi diversi dall’Occidente (si pensi, in questo senso, alla condizione delle donne in molteplici scenari che oggi più che mai esibiscono forme estreme di violenza misogina e patriarcale).
La matrice dei diritti umani si lega dunque ai protagonisti e alle vicende che ne hanno costituito il concreto processo di gestazione, e che non ne consentono una lettura in chiave di reductio ad unum astrattamente ideologica: in questo senso Bori, come già Giovanni Filoramo, rifiuta l’alternativa fra una concezione puramente secolare dei diritti umani, e una loro versione teologicamente orientata, che privilegi implicitamente un modello legato al prevalere di una verità fra le altre [12], e si pronuncia invece per una loro fondazione “non razionalistica, né strettamente teologica, ma spirituale”:
I diritti umani hanno certo una radice religiosa, una radice anche cristiana quanto alla genesi, ma si tratta di un Cristianesimo trasformato e universalizzato per l’enfasi posta sullo spirito, sulla soggettività, sulla libertà (…) un Cristianesimo capace di accogliere e sostenere Spinoza, quando annuncia nel suo Tractatus di voler dimostrare che “in una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa”.
Se questa tesi sull’origine dei diritti umani è corretta, afferma Bori, “allora l’universalizzazione dei diritti umani non deve necessariamente attuarsi attraverso il razionalismo agnostico, oppure il liberalismo di matrice cristiana: può anche e meglio passare e crescere attraverso risorse che rientrino nella categoria dell’individualismo religioso, di cui sono esempi espressioni del sufismo in ambiente islamico e il buddhismo attivo di Thich Nhat Hanh” [13].
Un repertorio anticonformista, si può aggiungere, a cui anche le antiche tradizioni cinesi hanno a loro volta offerto dei significativi contributi, che gli apologeti in chiave autoritaria dei “valori asiatici” rifiutano di considerare: e non si tratta solo di celebri figure taoiste di “santi maledetti” come Xi Kang (223-262), esponente di spicco del gruppo dei Sette Saggi del boschetto di bambù, ma anche di tutto un versante di letterati confuciani che nel corso della storia dell’impero opposero un coraggioso esercizio del dissenso a un potere fattosi tirannico arbitrio, e riaffermarono energicamente che la sola autentica legittimazione del potere sovrano consiste nell’adesione al senso dell’umanità e al senso della giustizia (renyi) [14]
Nel suo scritto del 2010 “Libertà per sé, libertà per gli altri”, Bori dichiara che la sua ricerca sui diritti umani era cominciata tanti anni prima quando gli era apparsa “come l’unica via d’uscita dagli anni di piombo”. Oggi, in questa temperie che vede più che mai prosperare vecchie e nuove forme di prevaricazione e di autoritarismo, e in cui sulla scena pubblica retoriche aggressive e fragorose sembrano voler obliterare in nome di sciovinismi ostentati di varia matrice fin la minima percezione dell’unità della specie, credo abbia uno speciale senso riprenderne sommessamente ed operosamente il filo, sul duplice versante che ci ha indicato, quello della costruzione del consenso etico fra culture e del legame responsabile e solidale con i nostri fratelli umani, e quello della difesa del singolo – e della singola – da qualsiasi forma di prepotenza arrogante – istituzionale, di gruppo, di clan, di famiglia, di comunità – che lo voglia o che la voglia schiacciare.
NOTE
- [1] Pier Cesare Bori, Incipit, Cinquant’anni cinquanta libri, Marietti 2005. Della modalità commentariale del pensiero come stile intellettuale caratteristico di Bori e come metodo filosofico a mio avviso particolarmente fecondo ho trattato in Amina Crisma, “Sinologia e filosofia, confronto con la Cina e riflessione interculturale”, in E. Magno e M. Ghilardi (a cora di), La filosofia e l’Altrove, Mimesis 2016, pp. 189-205.
- [2] Pier Cesare Bori, CV 1937-2012, Il Mulino 2012.
- [3] “Pier Cesare Bori e la rivista Inchiesta, www.inchiestaonline.it ; Amina Crisma, “Il silenzio e le parole: in memoria di PierCesare Bori”, Inchiesta n. 178, ottobre/dicembre 2012, pp. 40-44.
- [4] Dino Buzzetti, “Pier Cesare Bori”, in Alberto Melloni, Riccardo Saccenti eds., In The Image of God. Foundations and Objections within the Discourse on Human Dignity. In Honour of PierCesare Bori, Berlin, LIT Verlag 2010, pp. 5-8.
- [5] Pier Cesare Bori, Per un consenso etico fra culture, Marietti 1991. p. 89.
- [6] Amina Crisma, “I problemi dei diritti umani in Cina in un orizzonte di universalismo contestuale”, in S. Mattarelli (a cura di), Il senso della Repubblica. Doveri, Franco Angeli 2007, pp 179-190.
- [7] Pier Cesare Bori, Fei Wu (eds.), Pico della Mirandola, Lunwende zunyan, trad. cinese della Oratio de hominis dignitate, Beijing, Beijing Daxue Chubanshe 2010.
- [8] Alberto Melloni, Riccardo Saccenti (eds.), In The Image of God. Foundations and Objections within the Discourse on Human Dignity. In Honour of Pier Cesare Bori, Berlin, LIT Verlag 2010.
- [9] Pier Cesare Bori, Lampada a se stessi: Letture fra università e carcere, Genova-Milano, Marietti 2008; “Quando il silenzio è una cosa concreta. L’esperienza delle carceri”, 17 giugno 2012, www.inchiestaonline.it.
- [10] Pier Cesare Bori, “Essere gharîb in questo mondo”, Inchiesta 144-145, aprile-settembre 2004 (riprodotto in www.inchiestaonline.it).
- [11] Simone Weil, La prima radice (1943), Ed. di Comunità 1954.
- [12] G. Filoramo, “Individualismo mistico e radici della dignità umana”, Humanitas, LXIII, 2008, 3, p.473-479.
- [13] Pier Cesare Bori, “Libertà per sé, libertà per gli altri”, in V. Possenti, Diritti umani e libertà religiosa, Rubbettino 2010, pp. 11-16.
- [14] Amina Crisma, Confucianesimo e taoismo, EMI 2016, pp.101 sgg.; Ead., “Cuore di tenebra e anticonformistica saggezza nella cultura cinese”, in Sinosfere (www.sinosfere.com) 12 novembre 2018.
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta Online il 10 dicembre 2018