La felicità delle comunità in lotta e il lugubre uomo della provvidenza

13 Dicembre 2018 /

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di Guido Viale
La giornata dell’8 dicembre ha messo in luce l’essenziale. A Roma, l’autocandidatura di Salvini a «Uomo della provvidenza» («dio e popolo!» All’occorrenza sostituiti da rosario e pasta al ragù); ma anche a padre – anzi, papà – e padrone del paese; e a capo, con felpa d’ordinanza, della Polizia di Stato: a sancire la coincidenza tra governo e partito e tra partito e corpi repressivi dello Stato.
Il tutto nel nome di «Prima gli italiani!»: non sfruttati contro sfruttatori, oppressi contro oppressori, poveri contro ricchi; ma tutti insieme contro i più miseri della Terra: i migranti costretti ad affrontare umiliazioni, torture, rapine, naufragi e morte per cercare di sopravvivere o di procurarsi un futuro sempre più difficile.
Ma nello sproloquio di Salvini i migranti sono passati in second’ordine, essendo ormai stato non solo «sdoganato», ma promosso e non più in discussione il diritto di chiunque, sindaco o semplice cittadino, di insultare, aggredire e umiliare chi ha bisogno di aiuto. Ora l’avversario di riferimento è l’Europa: da cui Salvini pretende «rispetto» promettendo che sarà lui, con la sua voce grossa, a farci rispettare.

Questo spiega l’alto numero supporter accorsi a Roma da ogni parte del meridione: per lo più giovani che, abbandonata probabilmente la speranza del reddito di cittadinanza, rivelatosi fuffa o elemosina, cercano la rivincita in un orgoglio nazionale che certo non riempie lo stomaco, ma gonfia comunque l’ego.
E a cui Salvini garantisce quello che nessuna opposizione è più in grado di fare: svuotare del suo elettorato il movimento cinque stelle e punirlo per le promesse con cui li ha illusi. Una prospettiva che calza anche per il mondo delle imprese, che ha scoperto, ben più che nelle opposizioni, nel Salvini governativo, impegnato a fondo nell’atrofizzazione dei cinque stelle, il vero supporter del Tav Torino-Lione, simbolo di tutte le grandi opere inutili, dannose e costose di cui vorrebbe nutrire la via italiana alla «crescita».
Così, contestualmente alla manifestazione NoTav di Torino, l’ombrello che Salvini offre al mondo dell’impresa mette fine all’avventura delle sette signore SìTav, con il loro lugubre seguito di pacati energumeni contro la natura e il buon senso, che meno di un mese fa, al grido «l’Italia riparte!», era apparsa anche a molti intellettuali con la tsta pe aria il segnale di una riscossa del paese. Non era così, e non ci voleva molto per capirlo: non si crea un movimento se si è senza idee, senza progetto, senza struttura e senza cervello: tutte cose che Salvini ha e che alle «madamine» di Torino mancano.
La liaison tra Confindustria e l’uomo della provvidenza non è comunque una buona notizia, ma un triste deja vu; denunciarne per tempo i possibili esiti potrebbe indurre qualcuno a fermarsi sull’orlo del baratro. A Torino, invece, nella giornata internazionale della lotta delle comunità contro la distruzione dei loro territori, la fiumana del corteo NoTav ha rimesso la trentennale lotta della Valsusa contro la più dannosa, costosa e odiosa delle Grandi opere al centro di tutti i fronti di opposizione alla devastante decrescita intellettuale, umana, sociale e anche economica promossa dai poteri forti, palesi e occulti, che governano il nostro paese.
Un corteo festoso e non lugubre come l’adunata del mese scorso; con la partecipazione di donne e uomini di tutte le età, e soprattutto di giovani e non solo di maschi anziani in giacca e cravatta. Un corteo di militanti delle più diverse organizzazioni di base (più qualche esponente delle «sinistre della sinistra», in pausa pranzo dalle manovre in vista delle prossime elezioni), accorse da tutta Italia e persino dalla Francia, con una rappresentanza dei Gilet gialli: cosa che per il presidente del Piemonte Chiamparino falsa il confronto numerico, per lui perdente, con l’adunata SiTav, che era di soli torinesi; ma che è invece il segno della forza di una lotta che sta nel cuore e nella mente di tutti coloro che si battono per un mondo diverso.
Un numero crescente di intellettuali comincia a prendere atto di ciò che decine di migliaia di uomini e donne di tutte le età, impegnate da anni nella difesa dei propri territori e, insieme, delle condizioni di vita, del lavoro e del futuro delle comunità che li abitano, hanno capito da tempo: quella della Valsusa non è solo una lotta contro un treno fantasma e una galleria demenziale che non si faranno mai; intorno a quella mobilitazione è cresciuto nel corso degli anni l’embrione di una civiltà diversa, amica della natura, di una vita sana, di un lavoro sensato e pe questo rispettato, capace di instaurare rapporti di solidarietà tanto con i propri vicini e gli altri valligiani che con il resto del mondo: una esperienza che poteva svilupparsi solo nel conflitto contro l’insensatezza di quella «crescita» senza fine (di cui il Tav è una componente esemplare), che promette di trasformare il pianeta, e con esso la vita umana, in un inferno.
In mezzo, tra l’uomo della provvidenza con i suoi accoliti e le comunità in lotta per salvare i loro territori, la propria comune umanità e il pianeta tutto, non c’è quasi più niente. Ma è ora di cambiare rotta e il corteo NoTav di Torino ce ne indica la direzione.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto l’11 dicembre 2018

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