di Benedetto Vecchi
Due secoli separano il presente dall’anno di nascita di Karl Marx. In termini di anni (duecento), l’immagine evocata è quella di un uomo e di un’opera di altri tempi, ottocentesca. Eppure la sua critica all’economia politica, la sua antropologia filosofica, la sua militanza politica hanno condizionato gran parte del Novecento. Era quindi prevedibile che studiosi – marxisti e non solo – facessero i conti con la sua eredità teorica. Molte sono state le pubblicazioni dedicate al Moro. Difficile individuarne contorni netti, tuttavia. Ne esce semmai una costellazione tematica, talvolta sfuggente.
In primo luogo, emergono quelli che David Harvey ha chiamato i «punti di stress» dell’opera marxiana. La teoria del valore lavoro, la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, la definizione della necessità di una organizzazione politica che valorizzasse l’autonomia della classe operaia. La polarità tra una tendenza globale del capitale (la formazione di un mercato mondiale, o per usare una espressione di Etienne Balibar di «capitalismo assoluto») e una «nazionalizzazione» della base economica del capitalismo stesso.
Marx, va da sé, nazionalista mai lo è stato. Negli scritti indirizzati all’Associazione internazionale dei lavoratori o nei pamphlet «politici» ha infatti sempre criticato ferocemente ogni cedimento nazionale dei gruppi militanti. Trovarlo descritto, come ormai spesso accade, sia a destra che a sinistra, come un «sovranista» restituisce solo la miseria della filosofia politica contemporanea.
Chi si propone di gettare un po’ di luce su questa costellazione è Roberto Finelli in Karl Marx. Uno e bino (Jaca Book, pp. 287, euro 25), che con una felice idea scandisce la riflessione, interrompendo la linea che dal passato porta al futuro, invertendo cioè il ritmo: c’è prima il futuro, poi il presente (lo stato dell’arte della critica marxista al capitalismo) per infine chiudere sul passato (il marxismo storico).
Il futuro di Finelli è la dichiarazione di un percorso di ricerca in divenire, ma del quale alcune tappe sono state comunque segnate. Il filosofo dell’astrazione reale segnala in primo luogo la irrinunciabile necessità di rompere lo schema evoluzionista, determinista di una filosofia della storia marxista che fa del comunismo una sorta di approdo obbligato, dettato da leggi di movimento oggettive che cancellerebbero la tensione a una libertà radicale per la quale serve mettere al lavoro la coppia filosofica «individuazione e riconoscimento di sé».
Individuazione significa fare i conti con l’antropologia della povertà e dello sfruttamento nel capitalismo, mentre il riconoscimento del sé significa un esercizio della differenza che tiene aperta, appunto, la possibilità di una libertà radicale. Da qui l’evocazione della psicoanalisi come elaborazione «altra», propedeutica alla produzione di soggettività politiche adeguate al presente.
Il bandolo della matassa MATASSA ha però fili e fila da tirare, come quello della biografia di Marx. Paolo Ferrero e Bruno Morandi si inoltrano così su quel tornante, facendo leva su una evidente attitudine pedagogica rispetto le sue opere (Grundrisse e Capitale), convinti i due autori che la desertificazione politica di questi anni abbia quasi azzerato la conoscenza dell’opera marxiana. Il loro libro Marx. Oltre i luoghi comuni (DeriveApprodi, pp. 240, euro 14) passa in rassegna la perigliosa e romantica vita del Moro, ma anche la teoria del valore lavoro, il ruolo della finanza, dello stato. Di tutt’altro spirito, ma con evidenti punti di contatto metodologici con questo volume è poi l’ambiziosa monografia di Marcello Musto su Karl Marx (Einaudi, pp. 326, euro 30).
Sono anni che Marcello Musto svolge un lavoro certosino sulle fonti del pensiero marxista. In questo libro ci sono pagine dedicate ai pamphlet incendiari come il Manifesto del partito comunista, La critica al programma di Gotha, le vicende e gli scontri feroci che videro Marx e Engels battagliare contro anarchici, repubblicani (Giuseppe Mazzini era disprezzato dal Moro), socialisti utopisti. Un libro che smentisce l’immagine di un Marx autoritario e settario, restituendo invece la profonda convinzione che la liberazione della classe operaia potesse venire solo dalla classe operaia stessa e non da qualche dirigente illuminato o da un gruppo selezionato di giacobini, per quanto comunisti fossero.
I tanti libri usciti segnalano, tuttavia, un certo prosciugamento del bacino di lavoro intellettuale su Marx. Conferisce evidenza a questa difficoltà il tono un po’ mesto di molti interventi presenti nel volume curato da Stefano Petrucciani Il pensiero di Karl Marx (Carocci editore, pp. 381, euro 35), dove compaiono autori che si ritrovano anche in quello curato da Chiara Giorgi per manifestolibri (Rileggere il capitale, pp. 245, euro 20).
Il libro si caratterizza per un tentativo di rompere lo schema da una certa scolastica marxista. Stefano Petrucciani, ad esempio, affronta il tema della libertà, all’interno di un disegno nel quale le proposte politiche di Marx vengono qualificate come una anticipazione – tesi molto azzardata – del welfare state novecentesco. Il diritto borghese diseguale individuato dall’autore è funzionale alla lunga transizione che dovrebbe portare all’operatività, ma solo alla fine, della massima «a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno a secondo la sua capacità». Fino ad allora, il diritto non può che essere contraddittoriamente diseguale.
COSA FARNE ALLORA dell’eredità marxiana? Con una mossa a sorpresa, felicemente inaspettata, Sandro Mezzadra e Mario Espinoza Pino invitano a aprire laboratori marxiani facendo tesoro degli scritti giornalistici, legati alla contingenza, di Marx. Il giornalismo, quello sulle lotte di classe in Francia, sulla Comune, sulle corrispondenze per lo statunitense New York Tribune è interpretato come un laboratorio dove il Moro ha messo a fuoco i problemi da sciogliere nella sede adeguata – i tempi lunghi della riflessione – ma alla luce delle necessarie messe di dati, fondamentali per lo sviluppo delle sue categorie.
I due autori segnalano inoltre che sono scritti giornalistici che rompono la gabbia dell’accusa di eurocentrismo rivolta Marx, giungendo ad abbozzare – in base a quanto stava accadendo in Cina, Russia, India, Africa – una vision «multilineare» dello sviluppo capitalistico. In questa direzione va il saggio di Etienne Balibar contenuto nel libro curato da Chiara Giorgi (Rileggere il capitale). Il filosofo francese prova a individuare i punti di stress della teoria marxiana per poi sviluppare una concezione del «capitale assoluto» e del «debito ecologico». Un vento lieto lo portano infine altri due testi, Quelli di Alisa Del Re e Giso Amendola. La prima introduce i temi del lavoro di riproduzione, di cura, relazionale, del lavoro semplice e gratuito.
Una prospettiva femminista che entra in rotta di collisione con l’economicismo di molto marxismo ortodosso. Aria fresca, specialmente quando la filosofa italiana dice che la ricchezza degli anni Settanta non sta solo nell’immaginare e praticare altre relazioni sociali, ma nel saper tenere insieme diritti civili e sociali, spezzando cioè la gabbia che separa individuale e collettivo. Le singolarità e la loro irriducibilità a sintesi governate dall’alto. Il partito politico di massa, tanto nelle sue varianti socialdemocratiche che leniniste, non è stato messo in scacco solo dal perfido capitale ma è stato sottoposto alla critica roditrice del conflitto di classe. Pensare di ricostruirlo come se niente fosse accaduto, consegna chi lo propone a risibili risultati elettorali e politici da prefisso telefonico.
Libertà personale e libertà collettiva, dunque. Da inventare, praticare. È quello che fa lo «stato di agitazione permanente» delle donne di questi ultimi anni, che sgombera il campo da polarità tra i muscoli esibiti in qualche riot metropolitano scandito da gilet gialli e l’autodeterminazione di chi pensa che il proprio «lavoro elementare» (di cura, riproduttivo) con la ricchezza abbia molto a che fare. E sulla tensione tra produzione di soggettività e astrazione insiste Giso Amendola, mettendo in rapporto Marx e Foucault, stabilendo assonanze e dissonanze, foriere di inediti e proficui sviluppi.
Sono due testi che chiariscono molte delle dinamiche sociali, culturali, politiche dentro questo vischioso presente. Hanno inoltre il pregio di sgomberare il terreno dalle sciocchezze sui «conflitti di identità», la retorica delle «guerre culturali», invitando a immaginare e prendere in considerazione che la singolarità e frammentazione del lavoro vivo dentro il conflitto del capitale non necessariamente fa suo il lessico della rivendicazione economica, ma indugia – e quindi valorizza – su quello delle forme di vita, della relazionalità in divenire.
Il nodo, all’interno questo scenario, resta quindi quale organizzazione politica darsi. Il modello reticolare è una opzione, certo, senza però chiudere gli occhi: quella che sembra costituire una soluzione può rivelarsi, come accaduto nei movimenti globali di queste due decadi del nuovo millennio, un problema aggiuntivo.
Va dunque respinta ogni tentazione di scolastica marxista, di riattraversamento di tradizioni politico-culturali che non aiutano a comprendere il presente. È questo l’unico modo per mettere nuovamente al lavoro Marx. Riprendere cioè il lavoro della talpa. Per rompere la gabbia di un eterno presente. E aprire, con quel gusto per il paradosso e l’azzardo teorico e politico tipicamente marxiano, una strada che dia vita a una prassi teorico politica radicale. E comunista.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 7 dicembre 2018