di Silvia R. Lolli
Con il libro di Marina Forti, Malaterra come hanno avvelenato l’Italia, Editori Laterza, il circolo che dà vita a questo blog conclude le presentazioni per il 2018. Ne discuteranno alla libreria Ubik di Bologna (via Irnerio) dalle 18,00 di mercoledì 5 dicembre 2018 la stessa autrice già giornalista del Manifesto, oggi autrice per varie testate come Internazionale, Silvia Zamboni, giornalista esperta di ambiente, ex assessore comunale e presidente del quartiere Reno, e Vittorio Bardi, presidente dell’associazione faentina “Sì alle Energie Rinnovabili, NO al Nucleare”.
Avremo l’onore di coordinare la presentazione; è un libro che ci dà uno spaccato della realtà odierna del “bel paese”, quello ricordato ancora fino agli albori del Novecento per le sue bellezze naturali, storiche ed artistiche. Paese che trovò fin dagli anni Cinquanta nell’associazione Italia Nostra la prima voce critica allo sviluppo industriale spesso fuori controllo.
Il libro di Marina Forti è scritto con chiarezza e con una capacità d’inchiesta storica notevole: ci ricorda quanto l’Italia del dopo guerra abbia acconsentito al rapido sviluppo produttivo ma mettendosi pronamente al servizio di un’industria spesso predatoria delle risorse umane ed ambientali.
A conclusione del triplice impegno che il circolo Il Manifesto di Bologna ha organizzato in questi ultimi venti giorni, questo libro ne rappresenta il corollario finale; infatti anche a margine delle discussioni avvenute con i libri d’intonazione marxiana di Paolo Ciofi “la rivoluzione del nostro tempo” e di Marco Gatto “resistenze dialettiche” questo di Marina Forti ci dà la possibilità di riflettere su conoscenze che magari la sinistra italiana ha finora tenute erroneamente separate, ma dalle quali non si può più prescindere se si vuole recuperare il tempo perduto ed avviare le teorie e le pratiche necessarie per far fronte al nostro futuro molto difficile.
Un futuro che non può essere più visto solo con gli occhiali della ragione superiore del profitto. Dobbiamo fare i conti con le risorse ambientali, non solo limitate, ma anche distrutte: se l’acqua di falda è inquinata, se l’aria che respiriamo porta con sé veleni che ci ammalano, se i nostri alimenti sono inquinati il nostro tempo di vita sarà certamente inferiore o non esisterà più per molti di noi, soprattutto per coloro che non potranno avere accesso alle risorse naturali non inquinate. La divisione in classi dovrebbe partire anche da qui, ma forse non sarà necessaria se, come ci avverte l’istituto Ramazzini, lo sviluppo tecnologico con il 5G non ci darà più alcuna possibilità neppure di distinzioni di classe: molti scienziati stanno battendosi affinché si aspetti a far partire questa nuova tecnologia, perché non ci sono ancora studi sufficienti sui danni alla salute derivati dalle radiofrequenze per il wireless: www.terranuova.it/stop5G.
La ricerca condotta da Marina Forti descrive bene attraverso i capitoli dedicati a otto territori del Nord e del Sud lo scempio che uno sviluppo industriale poco controllato, potremmo dire anche di rapina, si è evoluta una criminalità organizzata che sparava inizialmente con la lupara, ma oggi entra in cicli produttivi e dei rifiuti in modo sempre più massiccio. Uno sviluppo nel quale la politica italiana del dopo guerra è stata remissiva alle nuove forme di colonialismo che oggi siamo in grado di individuare nei confronti di tanti paesi soprattutto africani ma in genere di ciò che definiamo terzo e quarto mondo, politica che ha permesso anche veri e propri scempi paesaggistici: Gela-Augusta, Agrigento, Portoscuso, Taranto…
In questo libro che, purtroppo, può diventare il primo di una lunga serie, troviamo racconti molto bene narrati ed approfonditi con una grande bibliografia (e sitografia) che aiutano la nostra memoria, ormai sempre più di breve termine, legata ad avvenimenti visti o ascoltati solo di recente.
La Forti non parla di Seveso, ma la sua inchiesta parte da quel 1976 quando l’Italia industriale, immersa nella strategia della tensione con in ballo l’applicazione dello Statuto dei lavoratori ed un benessere votato sempre più al consumismo complice la favola del benessere americano della famiglia felice di parsoniana memoria, si svegliò dal sogno quando vide il prodotto della diossina nell’ambiente. Da lì nascono le prime leggi italiane volte al controllo, affinché l’industria e i rifiuti anche domestici siano trattati per la bonifica per lasciare l’ambiente pulito.
Però, come ci racconta anche l’autrice, la difficoltà italiana è sempre il controllo e l’intervento giuridico efficace per i rei. Si arriva sempre dopo o mai a decontaminare un sito inquinato. Ma tutto ciò come è stato possibile? Ci possiamo fare questa domanda al termine della lettura, ma non è una domanda senza risposta, perché sappiamo anche oggi, vedi l’esempio dell’Ilva di Taranto, sviluppo industriale vuol dire lavoro e si cercano soluzioni per proseguire nel lavoro. Quel lavoro che oltre ad aver usufruito di sussidi statali ha prodotto una forte emigrazione interna fino almeno agli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, ma ha lasciato e lascia troppe scorie industriali oltre a quelle sociali.
Abbiamo subito uno sviluppo industriale che ci ha portato ad un relativo benessere economico; tuttavia oggi scopriamo che il prezzo pagato in termini di rischio per la salute è troppo alto e una società troppo accondiscente che subisce il ricatto del lavoro
Lavoro ed ambiente non possono essere contrapposti nel nostro futuro, ne va della stessa esistenza umana. È un tema che la sinistra dovrà in fretta affrontare. Ne saremo capaci? È questo conflitto, oggi di lettura più facile, fra lavoro e salute ambientale, umana e sociale, che ci fa pensare dunque a questa presentazione come la giusta conclusione, comunque temporanea per la fine 2018 ed ai futuri impegni dell’associazione del manifesto in rete.
Tanta strada è stata fatta, ma tanta se ne dovrà fare se vogliamo appunto pensare alle sfide politiche, cioè umane e sociali, del nostro futuro. Per prima cosa chiediamo a chi è disponibile di collaborare ad affinare un pensiero ed una prassi che negli ultimi vent’anni sono andati in letargo, almeno speriamo che sia solo così, cioè temporaneo.