di Sergio Palombarini
La Corte di Cassazione ha emesso una importante sentenza che non potrà che far felici i ciclisti e soprattutto quelli tra loro che usano la bicicletta per recarsi al lavoro. Il tema generale è quello dell’infortunio sul lavoro così detto “in itinere”, ossia occorso al lavoratore nel recarsi da casa al luogo di lavoro.
In generale nella interpretazione del testo unico sugli infortuni su lavoro e la loro copertura assicurativa Inail (d.p.r. 1124/1965) si ritiene che il risarcimento dei danni sia riconoscibile se il dipendente si è infortunato mentre si stava recando al lavoro a piedi seguendo il tragitto più sicuro, oppure in alternativa se ha utilizzato i mezzi pubblici. Può utilizzare i mezzi privati solo quando non ci sono alternativi possibili. Cosa accade se invece l’infortunio avviene utilizzando la bicicletta nonostante vi sia la possibilità di andare a piedi?
La Corte di Appello di Bologna aveva detto che non poteva esserci risarcimento da parte dell’Inail. La Corte di Cassazione ha riformato la sentenza, prima di tutto richiamando un suo stesso precedente, per il quale «l’uso della bicicletta privata per il tragitto “luogo di lavoro- abitazione” può essere consentito secondo un canone di necessità relativa [e quindi non solo quando non vi siano alternative], ragionevolmente valutato in relazione al costume sociale, anche per assicurare un più intenso rapporto con la comunità familiare, e per tutelare l’esigenza di raggiungere in modo riposato e disteso i luoghi di lavoro in funzione di una maggiore gratificazione dell’attività ivi svolta, restando invece escluso il cd. rischio elettivo, inteso come quello che, estraneo e non attinente all’attività lavorativa, sia dovuto ad una scelta arbitraria dei dipendente, che crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella ad essa inerente» (Cass. 13 aprile 2016, n. 7313).
La Corte ha poi richiamato l’art. 5 comma 5 della L. 221/2015 (che ha introdotto norme finalizzate ad una maggiore sostenibilità ambientale), che, intervenendo sull’art. 210 del T.U. n. 1124/1965 (quello che disciplina gli infortuni sul lavoro visto sopra), ha espressamente previsto che debba considerassi sempre necessitato l’utilizzo della bicicletta come mezzo privato per il raggiungimento del posto di lavoro, in considerazione dei positivi riflessi ambientali connessi all’uso di una mobilità sostenibile.
La Cassazione così conclude il suo ragionamento che porta alla interpretazione favorevole al lavoratore-ciclista: «l’uso del velocipede, come definito ai sensi dell’articolo 50 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 [è il Codice della Strada], e successive modificazioni, deve, per i positivi riflessi ambientali, intendersi sempre necessitato». La sentenza può definirsi rivoluzionaria, perché considera l’utilizzo della bicicletta come un vero e proprio diritto di valenza sociale, e per questo meritevole di tutela normativa.