di Gianluca Gabrielli, storico e insegnante di scuola primaria
E chi se la ricorda questa storia? Dai, è passato un secolo! Eppure vale la pena raccontarla, tirarla fuori dai vecchi cassetti. Ascoltala, vedrai che parla anche di noi, di quello che potremmo voler essere. In fondo siamo noi, volenti o nolenti, a scegliere il nostro passato.
1919
Sono gli ultimi giorni di dicembre. Da Bologna e da Milano partono due treni carichi di viveri e capi di abbigliamento. Ci sono anche le maestre, “vigilatrici”. Sono stati organizzati dalle giunte comunali socialiste di varie città italiane e dalle associazioni operaie. Vanno a Vienna, la capitale dello Stato nemico per eccellenza, dell’esercito al di là delle trincee. Vanno là a prendere bambini, il treno dell’Emilia Romagna ne prenderà oltre seicento.
Non è una deportazione, li prendono per salvarli, perché rischiano di morire di fame e di freddo. Sono i sindaci e assessori socialisti di Bologna, Milano, Ravenna, Reggio Emilia e altre città che si sono accordati con il nuovo borgomastro socialdemocratico di Vienna: accoglieranno i bambini e le bambine per la durata dell’inverno, perché a Vienna è finito il carbone e manca il cibo, i bambini pesano un terzo di quello che dovrebbero pesare e il dopoguerra è un inferno.
È un inverno davvero terribile. Una grande campagna internazionale di mobilitazione ha preso corpo in Europa e negli Stati Uniti. Käthe Kollwitz, pittrice e scultrice tedesca di impegno sociale produce vari manifesti per sollecitare l’aiuto: “Vienna sta morendo! Salva i suoi figli!” recita uno di essi, dove una figura piegata di madre procede a fatica contro una forza invisibile cercando di proteggere il neonato che ha in braccio e gli altri bambini che si riparano sotto le sue braccia dalle frustate di una figura scheletrica che rappresenta la morte.
È la Vienna di Karl Polanyi, di Sigmund Freud, di Arthur Schnitzler, Karl Kraus, Ludwig Wittgenstein, Arnold Schoenberg… Dall’Olanda, dalla Svizzera, dall’Ungheria, dalla Norvegia giungono treni per accogliere i bambini e accudirli durante l’inverno. Allora il 23 dicembre partono – quasi vuoti – anche i due convogli da Milano e Bologna: tornano pieni dell'”infanzia nemica” la mattina di capodanno del 1920, quasi l’auspicio di una nuova epoca di solidarietà che invece non riuscirà a mettere radici.
Difficile capire
L’aspetto più arduo da comprendere oggi è la forza simbolica di questo atto politico. I socialisti si erano opposti alla carneficina della Grande guerra e le giunte che si trovarono a governare le città negli anni del conflitto dovettero faticare non poco a mantenere un atteggiamento che non venisse accusato di disfattismo o che valesse loro l’etichetta di austriacanti, di colludere con il nemico, ma che dall’altra parte non divenisse una supina accettazione della guerra nazionalista.
Furono anni difficili, in cui le politiche comunali faticavano moltissimo nel mantenere almeno una parte di quell’intervento sociale pensato e promesso negli anni di pace. Quando la guerra finì la sua eredità fu caratterizzata dai lutti, dalla fame e dalla disoccupazione. Così in quell’inverno la scelta di porgere una mano a quell’Austria che per tre anni era stata “il nemico” per eccellenza era una scelta coraggiosa, significava mettere la fratellanza universale al posto della appartenenza nazionale, “prima chi soffre”, potremmo tradurre, e non “prima gli italiani”.
Con questi treni prendeva corpo il tentativo di costruire, al di là delle divisioni della guerra, una nuova società che non si facesse irretire dai confini sciovinisti e dalle appartenenze e puntasse sull’internazionalismo di coloro che non possedevano nulla, allora chiamati proletari.
La speranza non aveva targhe nazionali, ma etiche e politiche. Tandler, il medico assessore alle politiche sociali di Vienna, parlava in questi termini: “La guerra ha tentato di dividere i popoli, ma i bambini saranno i nuovi apostoli per la ripresa dei sentimenti di solidarietà tra gli uomini”. L’editoriale de “La Stampa” del primo gennaio 1920, pur con toni retorici fastidiosi, ci aiuta a comprendere cosa rappresentasse questa operazione di solidarietà attraverso i confini: “Molti padri di quei bambini hanno ucciso il padre ai nostri figlioli; molti di essi ebbero il padre ucciso da padri italiani. Oggi le madri nostre stringono al seno le vittime innocenti degli uni e degli altri e li bagnano tutti delle loro lagrime vedovili”.
Costruire/decostruire il nemico
Occorre fare un grande sforzo per immedesimarsi nel clima dell’epoca, che sortiva dalla prima “guerra totale” della storia, cioè la prima guerra combattuta anche dai civili, sul fronte interno. Bastano credo due episodi per comprendere quanto fossero potenti e diffusi gli elementi catalizzatori dell’odio e come coinvolgessero direttamente l’infanzia.
Nel 1918 ad esempio sorse a Portogruaro un istituto, l’Ospizio dei figli della guerra, per accogliere i bambini illegittimi delle terre liberate, concepiti – spesso per stupri – durante l’anno dell’occupazione nemica. Erano neonati chiamati “figli della colpa”, che andavano protetti perché rischiavano non solo la marginalizzazione insieme alla madre ma anche l’infanticidio, a causa dell’ingiusto e spietato giudizio che la comunità e la famiglia proiettavano su di loro. Molti vedevano nei corpi di quei neonati non delle vittime innocenti ma degli esseri contaminati dalla barbarie nemica, pericolosi agenti di discordia.
I discorsi di deumanizzazione del nemico avevano egemonizzato il discorso pubblico. In un libro di lettura per la quarta classe del 1919 possiamo leggere il racconto della morte di Lodoletta, una bimba povera italiana che sarebbe stata intossicata da cioccolatini avvelenati lanciati da un aereo austriaco. È con tutta evidenza una falsa notizia, una mitologia inverificabile che serviva a suscitare l’odio verso il nemico, come ne circolavano tante nell’Europa dilaniata dalla guerra. Nutrivano l’odio delle bambine e dei bambini italiani di nove anni.
Queste due informazioni di contesto credo aiutino a percepire la forza dirompente dello spirito solidale – in controtendenza – che questi treni immettevano nelle menti e nelle esperienze degli italiani dell’epoca, intossicate da tre anni di guerra terribile e da una propaganda che era andata crescendo attraverso strumenti molto più potenti che nel passato.
Da nemici a ospiti
Torniamo a Bologna, una delle città che ospitò i bambini di Vienna. Per quattro mesi i piccoli austriaci vengono accolti in collina nella colonia di Casaglia, struttura destinata a diventare in seguito una scuola all’aperto, e in altre strutture. Vanno a fare il bagno in centro città, nelle stanze predisposte in via Zamboni 15, dove oggi c’è la scuola dell’infanzia e dove allora c’erano le docce usate dalle scuole per assicurare l’igiene dei bambini poveri. Fanno attività all’aperto, sfruttando l’esperienza delle vigilatrici comunali che gestiscono la colonia. Le foto riportate nel giornale del Comune ce li mostrano in posa.
Un gruppo misto di una trentina tra maschi e femmine che avranno tra i sei e i nove anni assiste seduto ad un grande tavolo sotto una grande lavagna portatile, grembiuli e camici eterogenei scuri e lo sguardo vigile di una maestra; un altro gruppo di una trentina di femmine con grembiuli bianchi o comunque chiari si fa fotografare in posa ordinata sulla scalinata di ingresso della scuola insieme alla vigilante. Una terza foto riprende l’insieme dei gruppi riunito nella campagna dove sorge la scuola con gli educatori che probabilmente stanno distribuendo il pasto.
Nascono in città numerose iniziative di sostegno – organizzate soprattutto dai socialisti, ma che guadagnano un’adesione che supera gli steccati di partito. Pochi giorni dopo l’arrivo viene organizzata dai circoli socialisti di zona una passeggiata domenicale Pro bimbi viennesi nei quartieri popolari della Zucca e della Bolognina, accompagnati dalla banda. Si raccolgono soldi per l’Ufficio comunale d’Istruzione che gestisce l’ospitalità: “Era una gara per non dare meno del vicino e uno spirito di emulazione che confortava e incoraggia”.
In febbraio sono le donne della sezione femminile socialista a promuovere una festa a Casaglia, cui partecipa la banda municipale, si canta in italiano e in tedesco guidati dalle maestre bolognesi e viennesi, e si conclude intonando l’Internazionale. Offerte arrivano da ogni parte: circoli socialisti, cooperative, luoghi di lavoro, sindacato, ma anche “raccolte nei dintorni di Quarto Inferiore L. 18,65”, o “camerieri del Chianti L. 25”, o “raccolte in una festa di famiglia il 7 febbraio a mezzo Rizioli Alfredo L. 30,05”.
L’ospitalità dura fino ad aprile compreso, quando cessano i rigori dell’inverno e il momento più tragico è superato. La ripartenza è festa ma è anche pianto di commozione: “Si sperava di vedere sui teneri volti letizia e gioia e invece sgorgava copioso il pianto” (“La squilla”). “Il saluto dato ai fanciulli dal popolo bolognese fu veramente grandioso. L’interno della stazione rigurgitava di folla. Molte le rappresentanze delle associazioni politiche ed economiche, molti i vessilli.
Intervenne anche la fanfara socialista. I bambini erano vivamente commossi. Si mescolavano in loro due forti emozioni: il distacco dalle persone che per quattro mesi erano state come loro secondi genitori ed il pensiero dell’imminente abbraccio dei genitori veri, nella triste patria lontana…” “Il Resto del Carlino”). Con il ritorno a Vienna l’assistenza può trasformarsi in sostegno a distanza, con i bambini riconsegnati alle famiglie o alle istituzioni austriache.
Oggi
La pratica di “costruire il nemico” accompagna la storia umana dalla notte dei tempi. Eppure oggi questa attività si è “democratizzata”, diventando una competenza intrinseca di ciascun possessore di smartphone, una app che ha reso ogni cittadino esperto nell’invenzione di un “altro minaccioso”.
Purtroppo in alcuni momenti sembra che – degli studi sulla storia e la sociologia del razzismo – abbiano fatto tesoro non i suoi oppositori, ma quelli che lo fomentano. I meccanismi della propaganda di guerra, della nascita e della circolazione delle “false notizie” di cui scriveva Marc Bloch nelle trincee della Grande guerra, oggi si dispiegano sui social con un’efficacia moltiplicata, lanciati da imprenditori politici dell’odio che nelle nuove piattaforme di comunicazione trovano schiere di ripetitori obbedienti e di emulatori zelanti.
Da sempre, nei momenti di crisi, gli animi collettivi si nutrono dei pregiudizi che possono trasformare le cattive percezioni in verità inoppugnabili e i soggetti marginalizzati in comodi capri espiatori: migranti, “zingari”, islamici… Si chiama hate speech, discorso di incitamento all’odio: politicamente procura voti, individualmente regala il piacere di sfogarsi verso responsabili fittizi del proprio disagio.
Tessere legami sociali concreti e solidali è l’unico antidoto contro questa macchina dell’odio. Tanti ci provano individualmente, altri si associano.
- Angelo Cerizza, La bimba di Vienna, Archivio storico lodigiano, Lodi, 2011.
- Roberto Albanese, La solidarietà senza confini che salvò i bambini di Vienna (1919-1920), 2016.
- Andrea Falcomer, Gli “orfani dei vivi”. Madri e figli della guerra e della violenza nell’attività dell’Istituto San Filippo Neri (1918-1947), “DEP”, 10, 2009.
- Storia e memoria di Bologna – I bambini di Vienna a Bologna
Questo articolo è stato pubblicato da Comune-info.net il 23 ottobre 2018