di Carlo Petrini
Ormai sembra un mantra che si ripete a cadenza fissa. Periodicamente arriva il momento in cui, si torna a parlare della situazione gravissima del consumo di suolo nel nostro Paese e delle conseguenze della totale assenza di politiche di salvaguardia e tutela del suolo naturale sul livello di rischio idrogeologico della penisola. Quest’anno non fa eccezione e l’emergenza di questi giorni in Sardegna è qui a testimoniare la gravità della situazione.
Poco più di due mesi fa l’ultimo rapporto dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ci ha ricordato che il fenomeno del consumo di suolo agricolo e naturale continua in tutta la penisola, sostanzialmente a un ritmo più lento rispetto a qualche anno fa ma con preoccupanti segnali di una nuova accelerazione. Nel contempo, le aree marginali come quelle montane e pedemontane seguitano a spopolarsi senza segnali di inversione di tendenza.
Ciliegina sulla torta: una legge contro il consumo di suolo giace in parlamento dal 2011 (autore l’allora ministro dell’Agricoltura Mario Catania), allo stesso modo di una direttiva europea che doveva essere introdotta nel 2006 ma che per l’opposizione di alcuni Stati membri è stata definitivamente ritirata nel 2014. A questo punto è necessario mettere ordine: da una parte continuiamo a cementificare suolo naturale, il che significa renderlo impermeabile e non recuperabile, dall’altra intere aree di territorio vengono abbandonate dallo spopolamento causato dalla mancanza di opportunità economiche e sociali.
Questo in un contesto in cui è opinione sostanzialmente comune e trasversale, soprattutto dei politici, che l’Italia debba valorizzare l’agroalimentare di qualità e il turismo. Ora, non è difficile comprendere l’incoerenza di questo quadro. Perché, in fondo, che futuro hanno le eccellenze agroalimentari senza suolo fertile disponibile?
E ancora: come si può incentivare un turismo di qualità in un Paese che è sempre più imbruttito e devastato dal cemento, dove i paesaggi sono preda di opere grandi e piccole, talvolta avviate solo per la possibilità di accedere a qualche finanziamento o per non perdere la fantomatica “edificabilità” di un terreno? Il rapporto Ispra peraltro lo dice in maniera chiara: ad essere maggiormente soggette a cementificazione sono le aree costiere e persino quelle nelle zone protette, mentre i borghi che costellano le aree interne perdono vita e lentamente diventano musei a cielo aperto senza traccia di autenticità. Su quale turismo si intende puntare in questo modo?
Bisogna chiedere che la politica si occupi di queste cose in maniera organica, decidendo finalmente se l’interesse da difendere è quello della sicurezza dei cittadini o quello delle imprese costruttrici, se il made in Italy è uno slogan buono per i convegni oppure se si vuole valorizzare il lavoro di quegli artigiani e quei contadini che sono un presidio del territorio, che tengono vive intere comunità e che animano con il loro lavoro proprio quei paesini tanto decantati dai turisti. È ora di concretizzare iniziative serie in favore delle aree interne, di incentivo alla produzione di piccola scala e alla tutela del territorio, di disincentivo alla cementificazione selvaggia. È ora che la politica faccia una scelta chiara e precisa, se aspettiamo oltre non avremo più suolo da tutelare né contadini da valorizzare. Allora, ci saremo definitivamente dimenticati di essere il Paese più bello del mondo.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano La Repubblica il 14 ottobre 2018