di Silvia Napoli
Non dev’essere un caso se incontriamo Nicola Borghesi performer e regista di Kepler452, nell’imminenza della ripresa del Giardino dei Ciliegi, spettacolo rivelazione della scorsa stagione teatrale bolognese, perché un tratto da letteratura russa aleggia già nella persona che mi plana svolazzando in bici davanti ad un caffè.
I modi di Nicola sono pacati e febbrili nello stesso tempo, come si conviene a chi vive forse più in penombra o comunque sotto luci non naturali, che en plen air. Eppure questo rega in tutto e per tutto felsineo. è reduce da una lunga estate portoghese trascorsa nei laboratori teatrali di Thiago Alves, perché rinnovarsi e imparare sempre è cosa salutare,almeno se hai quasi sempre voluto fare questo mestiere, come candidamente ammette.
Non lo crederesti,ripensando agli esordi tutti interni ad una balotta molto indie, che all’inizio si fece rappresentare dai contenuti ironici del blogger Quit the doner, a sua volta esploso come la Ferrante dei giovani precari expat in Rete. C’era tanta gente allora a far caciara sulle tavole prestigiose dell’oratorio S Filippo Neri. Un sotto-sopra palco con il pubblico giovanissimo che si era messo fuori in file chilometriche all’entrata, perché comunque c’era anche lo Stato Sociale in quella storia li ed era un gruppo di culto, come si dice.
Si parlava e si cantava di una condizione generazionale di disagio. spaesamento, assenza di prospettive, tra l’invettiva, il comizio, la stand up comedy, lo speech, la ripresa di un modulo da canzonieri pop-politici riveduti e corretti. Lodo Guenzi, non ancora cosi nazional popolare confessava allora di non sapere se avrebbe fatto sempre quelle cose li, una volta varcata la fatidica soglia trenta.
Oggi, arrivati tutti a trenta-something, le cose sono sempre fluide, ma molto più definite nelle vocazioni e direi che di strada tanta ne è stata fatta, pur rimasti tutti molto legati in una sorta di movimento-fermo. a questi portici come pochi altri, se consideriamo la vocazione all’espatrio di tutta una generazione acculturata.
Nicola non considera questo ostinarsi a parlare di cose molto bolognesi come un limite espressivo-comunicativo del suo modo di fare pratica teatrale, anzi. Ci siamo resi conto, mi dice, io e gli altri Kepler, adesso strutturati in associazione e dunque con uno zoccolo duro formato da Paola Aiello, Enrico Baraldi e altri collaboratori satelliti di vaglia, come appunto Lodo in versione drammatica.Bebo Guidetti sempre dello Stato, come musicmaker, il francese Longuemar, professionista delle luci, che, parlando bene delle cose che vedevamo intorno a noi e più ci appartenevano, risultavamo molto più efficaci e immediati anche per tante altre platee.
Kepler è il nome di un pianeta scoperto di recente, che avrebbe le caratteristiche di somigliare potenzialmente alla Terra. riproducendone abbastanza fedelmente alcune condizioni minimali favorevoli al bios e questo dice tutto dell’idea di Teatro che anima il nostro.
In fondo il Teatro di Kepler, oltre ad esprimere benissimo una attitudine competente si, ma professionalmente “calda”, cioè che privilegia una buona onda di dinamiche di gruppo tra loro e il resto del mondo, piuttosto che inseguire il bello e il ricercato a tutti i costi.è una sorta di inchiesta permanente. con un tocco di naivete accattivante, ma anche tanta intelligenza sullo stato delle cose: questa Rivoluzione, per esempio, che a quanto pare, non s’ha da fare né ora, né mai, o questi comizi d’Amore-reprise, sconvolgenti nella loro verità rivendicata dopo Pasolini, con gli adolescenti delle Scuole, sgamati fino a un certo punto, nella nostra Emilia, se non proprio paranoica, talvolta comunque schizoide. Per non parlare del sempiterno elettoralmente spendibile dibattito sul Degrado, che, nella Kepler versione. il Lapsus urbano, diventa una azione teatrale interattiva strutturata come percorso turistico di gruppo nell’area Universitaria sulle tracce di tutto il bello e il brutto che le stratificazioni storiche ci consegnano, invitandoci a scrivere ognuno una guida personale della cittadella che volle raccontarsi.
Ma il racconto non dà gusto a Kepler e soci, se non è, appunto corale, se non è inclusivo di chi mai avresti detto, se non è identitario e dunque non aiuta a crescere chi per primo lo fa e il modo migliore per diventare grandi senza un principio di ruga, è quello di mantenere viva l’attitudine al laboratorio aperto e alla scoperta, diventare giovani maestri per la vita, forse. anche se involontariamente,non chiudersi in cameretta, anche se la ragione sociale sta tuttora a casa di Nicola.
Questo il senso di indire da subito, dagli esordi, il fortunato festival20.30, quando si era coetanei di tutti quei ragazzi che si presentavano e si presentano ancora, oggi da tutta Italia, che sono rigorosamente under 30, selezionati da altri altri under 30, probabilmente fuori dalle correnti ed etichette avanguardistiche che conosciamo nella Accademia dei critici.
Novembre è da sempre il mese cruciale per Nicola, dato che nella seconda metà di quel mese, terminata la tournée ottobrina, partirà appunto il festival, più ricco che mai, mi assicura e, di nuovo, a grande richiesta il salto di qualità per eccellenza del gruppo, perché verrà riproposto nel teatro cittadino per antonomasia. quel Giardino di cui si diceva, riuscito tentativo di evitare i perigliosi scogli del parlarsi addosso e potente interrogativo invece per la polis, sulla sua capacità inclusiva.
Un giardino che si deve abbandonare per l’ignavia ipotecaria di una esangue aristocrazia al tramonto da un lato, una casa-in comodato d’uso che si è costretti a lasciare, per protervia invasiva di un sistema che tutto vuole colonizzare in ragione economica ed espansiva, dall’altro. Le parole immortali di Cechov, appaiate all’autobiografismo Di Giuliano e Annalisa, una coppia forse eccentrica, dedita ad una pittoresca preservazione di specie animali fai da te che aveva fatto del suo giardinetto a prestito, un eden di felicità domestica tra tortellini e vino rosso, traditi per grottesco contrappasso dalle ruspe fondative del tempio della filiera agroalimentare e gastronomica il cui nome acronimo strizza l’occhio ad un incongruo entusiasmo giovanilista.
E il giovanilismo è invece totalmente assente qui, quando sentiamo di due anziani col colbacco catapultati nella vita e nel racconto, in quell’esperienza multietnica per sfollati sgomberati che fu il Galaxy, nella temperie del nostro urbano scontento, quando di nuovo furono disoccupate le strade dai sogni. Uno spettacolo che ha fatto scalpore perché il garbo letterario ha impresso negli spettatori commossi il senso vivo di perdite irreparabili che forse si fatica a percepire dai telegiornali. Viene in mente anche Brecht a un certo punto, anche se qui lo scopo è opposto, quello di azzerare le distanze, quando ci ricorda che poi vennero a prendere noi, dopo tutti gli altri.Del resto, Nicola Borghesi, a dispetto del suo nome, ha anche il fegato di dichiararsi comunista. cosa non proprio comune per i giovani della sua generazione:un comunismo dal volto gentile e che sicuramente ha messo le persone prima delle ideologie da un bel pezzo.
Un comunismo anche romantico e divertente, che sa prendersi in giro, riconoscendo i tratti della eterna lotta contro i padri, nei tic pseudorivoluzionari di tante generazioni, che hanno cercato la spiaggia sotto i sampietrini, come per esempio recita il loro lavoro di questa primavera dedicato al ’68, una generazione di ribelli colta, educata, utopista e scanzonata. contemporaneamente distruttiva e assertiva, ancora tutta da capire fino in fondo, che forse un po’ si riverbera nella lena fresca e curiosa di questi giovani artisti.
Non è dunque un caso, che Nicola ci regalerà un intervento cameo proprio da quel lavoro nel pomeriggio del 20 novembre nell’ambito delle iniziative di approfondimento a latere della mostra documentaria: questo non è che l’inizio, che dall’Assemblea legislativa ER, sbarcherà il prossimo mese a Palazzo comunale.
Non potevamo chiudere questa chiacchierata che con una domanda sulla Resistenza, rimessa in discussione nelle sue matrici politiche e storiche mille volte negli ultimi anni. tacciata quando va bene, di essere un mito retorico e impolverato, incapace di appassionare più di tanto le generazioni più recenti, forse perché anche il valore culturale e identitario della conoscenza storica, viene ripetutamente messo sotto attacco.
Nicola. un ragazzo che sarebbe piaciuto a Gaber e che certo è molto lontano da qualsivoglia spirito celebrativo, si fa serio per scandirmi convintamente di amare la Storia, senza timore di sembrare anacronistico e di considerare quella generazione la base di tutto. In fondo, la Resistenza mi dice è il nostro mito buono,fondativo in quanto repubblica democratica e comunità:tutti devono poterci trovare le loro ragioni. per questo critiche e revisioni e dibattiti non lo scalfiranno mai e farci uno spettacolo certo non è semplice. Perdere le cose, si intitolerà il prossimo lavoro di Kepler, ancora in gestazione. Abbiamo perso tutti sicuramente qualcosa in questi anni disillusi e per questo speriamo che su questo pianeta ci sia ancora vita attiva di pensiero per molto tempo a venire.