di Alessandra Maltoni
La vicenda del crollo del ponte di Genova ha scosso profondamente la nostra emotività sino al punto di interrogarci tutti, destra e sinistra, su quale sia ancora l’effettiva portata dell’etica pubblica. È mia abitudine confrontarmi con i fatti che accadono tentando di leggerli e interpretarli in una chiave che sia il più possibile ampia e storicizzata. Questo continuo confronto mi induce inevitabilmente e amaramente a ritenere che lo Stato italiano, inteso come quel progetto unitario e duraturo in cui molti di noi e dei nostri avi avevano posto tante speranze, è ormai scivolato via, piegato dalle dinamiche di “liberalizzazione selvaggia” che, prima di divenire scelta politica, si sono imposte come “nuova mentalità”, un nuovo “umanesimo” delle relazioni pubbliche. Quella mentalità che piace a un certo tipo di impresa che insegue il profitto e la speculazione, senza etica, per la quale l’interesse e le istanze dei cittadini, i loro diritti, le richieste di sicurezza e di amministrazione capace diventano e sono un ostacolo.
Pian piano, in assenza di discussioni feconde e di fervore politico, il cambiamento ha cambiato l’Italia. Le nuove privatizzazioni e un uso costante di decretazioni d’urgenza (l’eccezione divenuta regola) ci hanno inondati di decreti governativi che hanno “stratificato” un po’ alla volta un innovamento privo di discussione sui contenuti, con aule parlamentari blindate a priori dietro il diktat della “fiducia” senza emendamenti. Un fiume di regolamentazione spesso mascherato “d’altro” ha inondato l’Italia e pezzo per pezzo ha smontato e raggirato il sistema, riscrivendo Scuola, Lavoro, controlli amministrativi, regole sulla formazione dei provvedimenti e sulle decisioni delle pubbliche amministrazioni per facilitare forme di “silenzio assenso”, sempre più flessibili e meglio raggiungibili dal privato.
L’architettura statale che, con tutti i limiti e le imperfezioni, aveva offerto garanzie e solidità basate su un sistema di controlli pubblici ben scandito e funzionante, è stata sostituita da modelli schiumosi, facilmente potabili, dove la norma e i suoi continui rinvii sono diventi il facile strumento per commistione tra interessi economici dei privati e risorse pubbliche. Un sistema clientelare atavico ha poi rafforzato e plasmato il nuovo corso.
Un esempio di tale modello nel 2014 è stato il decreto enfaticamente chiamato “sblocca Italia”, il d.l. 133/2014, recante la dicitura “Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività’ produttive”. Un decreto “omnibus”, tuttofare, che si è precipitato a disciplinare, per “improrogabili necessità”, il potenziamento di autostrade e opere ferroviarie, come la Napoli Bari, i porti e gli aeroporti, fino alla gestione dei rifiuti urbani integrati o dell’energia. In esso ci sono rientrati anacronisticamente persino agli ammortizzatori sociali, ultima frontiera tampone in un mondo del lavoro che si stava inesorabilmente avviando al suo totale disastro.
Ma non basta, il decreto ha trattato anche le proroghe a concessioni autostradali, come la tanto discussa concessione ad “Autostrade per l’Italia”. Quei quasi tremila Km di infrastrutture nazionali compresi i ponti obsoleti e suscettibili di un possibile crollo che la cronaca di queste settimane purtroppo ha drammaticamente evidenziato. Invece di promuovere e pretendere un piano straordinario di manutenzioni il governo ha scelto di avviare la strada della “proroga” a contratti già scaduti con modifica delle concessioni in atto in una sorta di piano industriale e finanziario concordato e soggetto a preventivo assenso dell’unione europea. Un percorso ancora non completato ma che il decreto ha agevolato in funzione di un prossimo regime di “proroga implicita”. Un modello che avrebbe garantito futuri investimenti a prescindere dalle verifiche e dai controlli su quelli già fatti.
Scelte politiche della società e dei poteri pubblici sempre giudicabili. Ma mi chiedo, esiste ancora una formale responsabilità politica? Io penso che essa esista finché esiste un’opinione pubblica! Lo scorrere di cambiamenti sostanziali ha però trovato davanti a sé in questi anni una popolazione impreparata, quasi stordita, e questo anche grazie all’assenza della politica. Si è scambiata per l’ennesima innocua omologazione col mondo anglosassone quella che in realtà si stava profilando come la demolizione dell’apparato statale ordinamentale e delle nostre tradizioni pubbliche. I più hanno accettato la svolta, indifferenti al fatto che il nostro paese è quello che, tranne poche eccezioni, spesso insegue un’irrazionale tendenza al clientelismo, al farsi rappresentare da chi lo lusinga con speranze, promesse, favori. Questo è il paese che ha visto uccidere uomini come Borsellino e Falcone, il sindaco Vassallo, ma non impara ad educarsi alla legalità.
Siamo nell’era del codice dell’amministrazione digitale, eppure abbiamo appreso in questi giorni che le rendicontazioni di infrastrutture date in concessione erano carenti e che gli obblighi di pubblicazione non erano sufficienti. Si fa fatica a conoscere i rendiconti o l’avvenuta regolarità di controlli rispetto alle normative sulla sicurezza. Dall’inchiesta appena avviata sta emergendo che quella che dovrebbe essere, in uno Stato attento allo spostamento di denaro pubblico e privato per la realizzazione di strategie infrastrutturali di competenza nazionale, la principale priorità, ovvero la loro manutenzione e l’incolumità pubblica, non è stata sufficientemente garantita né con investimenti adeguati da parte del concessionario, né con puntuali verifiche da parte del Ministero.
E se si guarda il fenomeno delle esternalizzazioni in generale ci si accorge che ogni privatizzazione ha avuto una sua storia e un suo perché, ma tutte si riconducono alla trasformazione avvenuta a cavallo degli anni novanta quando nelle scienze dell’amministrazione pubblica, dietro lo slogan che “liberalizzare è bello”, sono state lanciate parole d’ordine come “miglioramento delle performance”, “della qualità”, “dell’efficacia e dell’economicità”, o la muscolosa “responsabilità per obiettivi” con una aleatoria quanto incompleta strutturazione della valutazione. Sono state tutte premesse, in quanto tali anche interessanti, ma che nel loro insieme non hanno trovato riscontro: la nostra efficienza burocratica è e resta poco definita.
Se per un momento ci imponessimo di guardare al panorama nel suo insieme ci accorgeremmo anche che non sono caratteristiche isolate, ma che, dalla gestione delle infrastrutture, ai trasporti ferroviari, alla sanità, ai programmi strategici delle opere pubbliche, fino al mercato elettronico, ovunque la sirena dello sconfinamento dell’imprenditoria privata ha piegato il pubblico alle sue regole. In tutto questo è rientrato anche il mondo del lavoro che conta ogni giorno le sue vittime. Alle dipendenze delle ditte esterne e di appalti esterni erogati e finanziati da enti pubblici lavorano da anni lavoratori invisibili.
Nei cantieri, nei servizi di sorveglianza e guardiania, nei servizi informatici, in cui il committente è pur sempre lo Stato, ci sono persone senza più identità e a cui lo Stato non chiede in alcun modo né direttamente né indirettamente conto in termini di qualità, di formazione, di tutele. Lo Stato ha abdicato alla sua Etica, chiamandola “delega”. E in questo modo che si finisce col salire su impalcature pericolose, con in tasca un “contratto a chiamata”, senza essere conosciuti dall’ispettorato del Lavoro, né da un sindacato, o da un direttore lavori.
Organizzazioni e relazioni politiche trasversali, hanno condiviso questa politica senza più ideali in una stagione di riforme privatistiche che dalla metà degli anni novanta è diventata dominante. Anche il patrimonio immobiliare pubblico spesso di eccellenza storico artistica è stato ceduto ai privati con le “cartolarizzazioni” o dismesso per esigenze di risparmio. Oggi esso in gran parte resta incustodito, pericoloso, forse sconosciuto persino al demanio e alle sovrintendenze che nulla dicono o fanno.
Dalla scuola alle università alla pubblica amministrazione si sono accettate nuove forme di “governance” e di organizzazione che hanno ridotto la presenza dello Stato, la rappresentanza delle comunità nei luoghi di confronto dove si prendono le decisioni più importanti, la capacità di fare investimenti nell’interesse generale. Un cambio di mentalità, in cui i valori come l’interesse pubblico alla concorrenza, la sicurezza, la correttezza e la trasparenza dei procedimenti amministrativi, non sono più valori, né priorità, né doveri.
Sono sicura che l’inchiesta di Genova svelerà un mondo di affari che in questi anni ha prosperato dietro il facile faro di commesse statali. Rivelerà, come altre inchieste, un mondo “a parte”, senza scrupoli, difficile da conoscere, dove si muovono associazioni più o meno trasparenti, società e consorzi privati, spesso soltanto temporaneamente costituiti per aggiudicarsi i vantaggi delle gare. Oggi piangiamo questa sciagura, le sue tante vittime. Non è stata una fatalità, nè c’è colpa, quel che c’è è soltanto e solo un gigantesco dolo, vagamente eventuale.
La strage di Genova ha sbattuto sulle nostre facce la crudezza del degrado di Stato che non offre più tutele. Non era questa l’Italia per la quale con fatica e lotte i Padri fondatori diedero talvolta anche la Vita. è a loro che penso in questi giorni di strage. Attendiamo le sentenze e i giudizi della Magistratura ma ciascuno di noi, senza bisogno di leggere quanti saranno gli atti omissivi compiuti o a chi competeranno le responsabilità dirette dei fatti, sa già che a Genova è stato compiuto un crimine e che bisogna interrogarsi. Quel ponte, prima di aver bisogno di stime, benefici e costi, cronogrammi o proroghe di concessioni, aveva bisogno di essere chiuso perché su quel ponte, palesemente fatiscente, transitavano ogni giorno migliaia di vite umane. Vite perse che oggi tante famiglie e una nazione intera piangono.